TRESOLDI, Andavamo a prendere il latte (testo poetico)

Due vitelline da latte

Di Cristiano Tresoldi

Uno scalpiccio improvviso ne annunciava l’arrivo alla latteria secolare, seguito da un’ombra spuntata da dietro il ciliegio, nella cornice solare del Civetta: arrivava l’Alfredo con il latte!

Spaventato dagli scarponi verdastri, che lasciavano sul selciato un leggero morire di ghiaia, il gatto grigio del Gianin scappava lontano; come un fruscio di vento del tramonto, scappava…

L’attesa dei valligiani s’era riempita, frattanto, di rumori dolci e aspri, mescolati ai profumi  penetranti delle ortiche e dei fieni appena deposti con la legna.

Il contadino barcollava ancora sotto il peso del latte appena munto e la stanchezza della lunga giornata di lavoro, per un attimo solo, mentre sui suoi occhi si posava un barlume dell’ultimo sole, nel breve tratto di mulattiera che ancora lo separava dal caseggiato, dalle quattro mura annerite negli anni dal fumo.

E il casaro con abilità, entrato il contadino da quel portone tutto rovinato, versava il bianco latte dentro un pentolone di rame, dopo averne coperto l’imboccatura con uno straccio, per evitare che facesse grumi, e insieme mescolava i suoi ricordi di gioventù, perché tutti potessero intuirne la bontà.

Provenisse dal seno di una divinità antica, o scaturisse da una profonda spaccatura della montagna, o da una semplice mucca, gli abitanti di Coi si abbeveravano alla vita scorrente in quei paraggi, come i loro nonni e i bisnonni, come gli antichi.

Il contadino e il casaro conversavano tra loro con autorità ed esperienza, sicché per un attimo un sorriso allargava i cuori, soprattutto dei cittadini, che assistevano incuriositi, come parte importante, a quel memoriale rito sacro, come i bambini della montagna, rotolando furtivi per l’erba mossa appena da un fruscio di vento.

Cosa fosse quel  villaggio sulle rocce, non era dato sapere, del tutto, ma quei due uomini erano le vestali del latte, come antichi sacerdoti officiavano un rito, con mani esperte e segni convenzionali, che chiudevano la loro e la nostra giornata.

Tra le annotazioni con un moccolo di matita sui libretti infilati sugli scaffali di legno consumato, tra le pesature di quel litro o mezzo litro di latte, come fosse stato un liquore prezioso da mescere, i vasetti sbatacchiavano alla rinfusa sul tavolo, qualche coperchio cadeva a terra, qualche fiotto di latte bagnava il tavolo.

E la gente soddisfatta sfilava da sotto il porticato, entrava ed usciva, da quei Vespri antichi e moderni, con poche parole, un buonasera, un arrivederci, e il pegno sacro della colazione del giorno dopo. Alcuni osavano di più: «Avete formaggio o burro?» e il casaro, con un sogghigno leggero, con furbizia d’altri tempi, come fosse stato da solo in un retrobottega cittadino, andava a vedere nel vano del sottoscala e tornava con un involto, per non scontentare nessuno.

Poi, dopo le otto, con le prime ombre estive, e il cozzare in cielo delle mutevoli nuvole, orlate d’alabastro, si faceva buio e tutti come marmocchi andavamo a cenare, dopo avere sognato un’ultima volta quei mondi immaginari tra altissime vette e credere ch’esistessero davvero, e riprometterci di tornare la sera successiva, come in un lembo di paradiso, incastonato tra Pelmo e Civetta.

Milano, 28 maggio 2017

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