Il valore e il permanere dei titoli civili ed ecclesiastici

La cultura sociale in cui viviamo è caratterizzata dall’anonimato e da un bisogno psicologico, quasi morboso, di non fare apparire le proprie caratteristiche identitarie, personali e comunitarie. Chi lo fa, e ne ha non solo tutto il diritto ma il dovere, rivestendo un ruolo sociale o pubblico, teme di essere tacciato di esibizionismo, di atteggiamenti discriminatori e persino di razzismo, se in campo politico, o di arroganza spirituale e integralismo (o tradizionalismo) se in ambito religioso. Naturalmente cattolico, perché verso i membri delle altre religioni queste accuse sono sempre assai più blande; è la Chiesa cattolica, come tale, sotto tiro, nella società attuale, se mostra di non tradire se stessa e la propria storia.

Menomati da tale atteggiamento psicologico, all’evidenza fuorviante, sono purtroppo anche alcuni vescovi e sacerdoti, sempre alla ricerca non di valorizzare la storia della Chiesa, ma di sminuirla, relegandola a «bagaglio glorioso fin che si vuole ma del passato», che non smettono di mostrarsi accondiscendenti – dall’altra – alle lusinghe del moderno, pur fragile e senza radici collettive della sua comprovata valenza, che, infatti, proprio non ci sono. Insomma, si va avanti a naso, come il Dio Moderno comanda.

Tra le realtà che ben presto vengono travolte dalla morbosa cultura antistorica, attualmente sì ma tenacemente di moda, vi sono i titoli di ruolo, quelli nobiliari e quelli d’onore, tutti ridotti al livello di irritanti flatus vocis ossia termini ai quali non corrisponderebbe alcuna sostanza; questo modo di parlare e di pensare è fuori d’ogni logica. Il fatto che la stessa Costituzione della Repubblica italiana disconosca i titoli nobiliari, mostra quanto questa mentalità abbia saputo istituzionalizzarsi e imporre, schiacciando e rinnegando il reale, la sua visione puramente ideologica; anche la Costituzione italiana, perciò, ha al suo interno dei limiti e delle mostruosità di irragionevolezza, granelli d’incenso versati al pensiero marxista dei membri del Partito Comunista Italiano, che alla fine della seconda guerra mondiale s’era venuti a trovare (e molti di essi erano prima stati dei fascisti o, meglio, già allora degli opportunisti), dalla parte dei vincitori politici. I «vincitori politici», sia nella società civile che all’interno della Chiesa, per il fatto stesso di trovarsi con «il coltello dalla parte del manico» presumono (se sono degli idioti) o tentano di far credere (se sono degli scaltri, ma pur sempre vigliacchi, manipolatori delle masse) che anche la loro ideologia sia quella vincente, «giusta e santa», come si dice nella Messa delle cose che si riferiscono a Dio, l’incontestabile per eccellenza.

Tornando ai titoli, è vero che ci possono essere di quelli puramente d’onore; ma, anche in tale caso, ad essi corrisponde una sostanza, che è come minimo una segnalazione di onorevolezza, fatta a nome della comunità (ai vari livelli e secondo i vari ordini sociali) o da parte di persona che, pur non agendo a nome della comunità, per qualche motivo è legittima titolare della facoltà di concedere tali titoli ed è perciò, come i primi, una fons honorum. Quando uno Stato, come assurdamente fa la Repubblica italiana, rinnega perciò – per fare un esempio – i titoli nobiliari, si autorizza e legittima, senza averne il minimo fondamento, a considerare non autorizzati e non legittimi dei titoli che, in verità, erano e sono tali in tutto e per tutto, perché concessi da soggetto di Stato, precedenti ai suoi esponenti dell’ultima ora, che erano nella piena facoltà di farlo. La discussione sulla opportunità o persino moralità (e immoralità) di alcune concessioni nulla aggiunge o toglie alla legittimità e legalità dei titoli in sé e il non permettere l’uso di un qualcosa di legittimo è una vera e propria coercizione d’un diritto, non solo acquisito ma creato dallo stesso Stato in un periodo storico precedente.

A parte i titoli esclusivamente onorifici, ma non per ciò meno legittimi, ai portatori di un titolo fa carico in molti casi pure un ruolo sociale, un onere, da cui il detto proverbiale: «Avere l’onore e l’onere».

Quanto sin qui detto vale sia in ambito civico che ecclesiastico.

Nel caso del titolo ecclesiastico di decano, portato dai parroci d’Anpezo (Cortina d’Ampezzo) e di Fodom (Pieve di Livinallongo), siamo di fronte a soggetti titolari della seconda specie, ossia con onore ed onere. E l’onere o loro ruolo non è solo quello di parroco ma di vicario foraneo, sia pure coincidente in persona parochi, delle loro comunità.

Da alcuni mesi, però, il ruolo dei due decani, in quanto vicari foranei, è stato modificato, sia pure ad experimentum, ma con l’intenzione, ben intuibile, che l’esperimento divenga opzione definitiva. Se così non fosse, il decano di Cortina d’Ampezzo, don Ivano Brambilla, non avrebbe parlato di scelta vescovile determinata dalla scarsità del clero, poiché questo è un calo ministeriale che non si risolverà certo a breve, anzi non v’è dubbio che s’aggraverà ancora, e non poco. La diocesi, da parte sua, ha motivato l’experimentum, che formalmente resta tale, con maggiore scaltrezza di don Ivano, ossia in termini positivi: l’intento di far collaborare di più, tra loro, i fedeli delle singole parrocchie. L’intento, senz’altro apprezzabile e sostenibile, non potrà dirsi provvisorio, ma è auspicabile sia definitivo e, dunque, non è forse un modo di dire che l’experimentum non è, in realtà, tale ma una scelta definitiva? La provvisorietà sarà forse per qualche caso specifico, bisognevole di riposizionamento, ma la linea pastorale come tale è, al di là del consolatorio dichiararla provvisoria, una determinazione definitiva. Quale altro vescovo, infatti, avrà la forza morale di rinnegare il suo predecessore, cioè l’attuale, mons. Renato Marangoni, che l’ha voluta?

Nel caso del decano d’Ampezzo, il suo ruolo (per cui porta, tra l’altro il titolo di decano) è stato reso condominiale con i vicari foranei del Cadore (che ha, a sua volta, il titolo di arcidiacono del Cadore, concordato con la Magnifica Comunità di Cadore) e quello del Comelico (che, in verità, è pur sempre un’area del Cadore; un vicariato foraneo che, in questo caso, è di semplice istituzione vescovile, senza pattuizioni con le comunità locali).

La «condominialità o alternanza di ruolo» non dovrebbe comportare la decadenza dei titoli di decano o di arcidiacono in quanto mera «segnalazione e attribuzione d’onore», ma, visto come hanno agito sinora ai vertici della diocesi di Belluno-Feltre, teoricamente – viene da dire – «è da aspettarsi di tutto». Ma non succederà; ridotti a pura segnalazione d’onore, i due titoli resteranno. La diocesi è ben consapevole che una loro abolizione formale porterebbe a delle contestazioni di grande portata pubblica e, perciò (non certo perché le interessi difendere quei titoli) lascia perdere. A che pro irritare e scoraggiare i fedeli, spingerli – pur senza trovare ragionevole il loro (non il proprio) atteggiamento – ad allontanarsi ulteriormente dalla vita di Chiesa e dall’adesione alla Fede cattolica? Meglio dare il contentino, come scorza, togliendo però ai due titoli, per quanto possibile, ogni valenza reale, ogni sostanza! Secondo il modo di ragionare, da santo fin che si vuole ma anche da astuto contadino, di San Pio X (di cui si parla troppo poco), quando, concedendo un titolo onorifico, in cambio di un certo gruzzolo, diceva: «Ma sì, date loro quanti titoli vogliono: a loro va il fumo, a noi l’arrosto!».

L’unica strada realistica percorribile, con buone speranze di successo di salvare il salvabile (siamo arrivati un’altra volta a queste assurdità: che chi ha un diritto debba difendersi dall’autorità che, al contrario, dovrebbe essere la prima a riconoscerglielo, sempre, e a tutelarglielo) che ciò non avvenga, è quella di smascherare i «giochetti sottobanco», renderli di pubblico dibattito e motivare, poi, il fondamento giuridico dei titoli e il fatto giuridico in base al quale sarebbe iniqua una loro eventuale abolizione. Non dico come ruolo, sul quale il vescovo è libero di decidere, ma come titolo d’onore in se stesso, che è un diritto collettivo acquisito, essendo collegato, nei due casi del decano d’Ampezzo e dell’arcidiacono del Cadore, ad uno ius eligendi: quello d’un parroco decano e non solo d’un parroco generico e a-storico (definito in astratto), nel primo caso, e quello d’un parroco con un ruolo specifico, come giuridicamente concordato con la Magnifica Comunità di Cadore, nel secondo caso.

Un esempio può aiutare a capire queste interconnessioni. Esso è relativo alla mia parrocchia nativa, quella di Fusine, in Val di Zoldo. Fino ad una settantina d’anni fa, il suo parroco portava il titolo di pievano, concesso spontaneamente da un vescovo del Settecento, in considerazione dell’importanza (allora) della parrocchia. Tale pievano era eletto dai capofamiglia regolieri, poiché la parrocchia come tale era stata costituita nel 1615, per autorità pontificia, con questo diritto di elezione popolare (cioè, più esattamente, dei regolieri, non di tutti i residenti). I capofamiglia vennero invitati, nell’ottica centralista del fascismo (in parte condivisa da vari prelati di quel tempo), a rinunciare allo ius eligendi, con la promessa che, in cambio, il parroco-pievano sarebbe stato elevato dal vescovo al grado di arciprete. La gente accettò, purtroppo, e da allora il parroco di Fusine è arciprete. Ebbene, se il vescovo intendesse abolire questo titolo, motu proprio, decadrebbe la rinuncia allo ius eligendi fatta allora. Non si tratta, infatti, di un semplice flatus vocis, né di una concessione spontanea (come era avvenuto per il precedente titolo di pievano) ma di un vero e proprio patto tra vescovo e comunità locale; il qual patto, per essere validamente modificato, avrebbe bisogno della volontà concorde di entrambi i soggetti morali sottoscrittori della prima convenzione.

I Consiglio comunali di Cortina d’Ampezzo e di Pieve di Livinallongo, dove i parroci sono decani, ossia vicari fornaei e parroci, sinora non sono intervenuti a salvaguardia delle loro prerogative e dei loro obblighi di portavoce della comunità. Forse non si sono neppure resi conto a pieno della portata, anti-giuridica e anti-storica e anti-identitaria, dell’azione messa in atto silenziosamente e da prima fatta conoscere solo tramite un sito specifico, che non è certo un gran mezzo di divulgazione popolare, né quello ufficiale e corretto per consultare e comunicare su questioni così importanti. È evidente che si è voluto mettere i due Consigli comunali di fronte a un fatto compiuto, sia pure adducendo ad auto-giustificazione la provvisorietà della scelta fatta nel nascondimento o quasi; e questo sarebbe il «sistema del dialogo», di cui si risciacquano continuamente la bocca? Tutt’altro!

Prima o poi, però, a meno di una specie di suicidio morale e tradimento di un punto importante della propria storia e identità, tali Consigli comunali dovranno pur far sentire la loro voce, al vescovo e ai loro decani, e mostrare da che parte stanno: se con la gente e la sua storia o contro la gente e l’amata appartenenza morale e storica al Tirolo. E dovranno farlo senza cadere nella trappola di spostare l’attenzione dal fondamento giuridico del titolo di decano, ben solido e stabile nel tempo, alla crisi attuale del clero, come se una contingenza attuale fosse ipso facto un motivo giuridico sufficiente (quando mai?) per abolire dei titoli storici, d’onore e di ruolo, in tutto legittimi, sempre tenuti in considerazione dai vescovi di Bressanone (dai quali Cortina e il Fodom dipendevano fino a non molti decenni fa), dalle popolazioni, dai Comuni e, naturalmente, dai parroci, primi diretti interessati, assieme ai soggetti appena accennati, che pure sapevano di essere, come sono, parti direttamente interessate. Che un semplice prete, quale sono io, debba ricordare ai suoi superiori queste evidenze, è un’altra prova, però, di quanto oggi (ossia da dopo lo sconsiderato concilio Vaticano II) la Chiesa sia in difficoltà e come una barca (o una nave) che procede a vista, senza poter contare su guide o nocchieri di cui avrebbe bisogno, ovvero con alla testa (si fa per dire) sacerdoti e vescovi che appaiono confusi e impreparati anche in materie che, ancora quarant’anni fa, erano patrimonio culturale comune e assodato persino tra i laici più semplici delle nostre parrocchie.  

Don Floriano Pellegrini

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