Il culto di Maria dei Templari quale culto cavalleresco

Di Paolo Lopane

Come tutti i religiosi, i Templari osservavano i voti di castità, povertà e obbedienza. La perpetua continenza era prevista dall’art. XX della loro Regola: «Quale biancore», si legge a proposito dei candidi abiti, «se non si preserva la castità?».

La purità, simboleggiata dal cordoncino con cui i frati si cingevano la vita – la «sainturete petite» –, era connessa alla fedeltà a Maria, protettrice dell’Ordine.

A Lei era dedicato il mattutino. Se un Templare avesse disertato la messa, avrebbe dovuto recitare tredici Pater noster in Suo onore ed altri tredici come officio quotidiano. Così veniva appellata nella liturgia: Regina Militum, Regina Fratrum Templi, Regina Conventi ab albis stolis, Regina Sancti Ordinis Templi, Auxilium Templariorum. In una litania si ripeteva: «Nostra Signora è stata l’inizio del nostro Ordine, e in Lei e in Suo onore sarà, a Dio piacendo, la fine della nostra vita, quando Dio vorrà che ciò accada». Arnoldo di Sournia, cavaliere di Mas Deu (Rossiglione) caduto in Terrasanta nella seconda metà del XII secolo, offrì il suo corpo e la sua anima «al Signore Iddio e alla beata Maria». Fra’ Americo della domus di Sainte-Geneviève, pri- gioniero a Parigi all’epoca del processo, in luogo di una memoria difensiva compose una toccante preghiera alla Vergine: «Maria, Stella del Mare, accompagnaci al porto di salvezza…». Giacomo di Molay, ultimo Gran Maestro del Tempio, affrontò il rogo con il viso volto a Notre-Dame-de-Paris.

Un mistico omaggio, dunque; un cavalleresco omaggio alla venerata «Maris Stella», la «dolce» e «viva stella» che Dante, il sublime cantore della «milizia del ciel», vedrà cinta dalla fiamma dell’«amore angelico» (Par. XXIII, vv. 91-120). Non deve stupire che questo Fedele d’Amore, che per Robert L. John sarebbe stato affiliato al Tempio, avesse cantato con la stessa sacrale passione la sua Beatrice e la venerata «donna del ciel».

La Donna, mistero inghirlandato di stelle, era stata aureolata d’azzurro nei santuari letterari di Provenza. Musa e ispiratrice di quello «joi d’amor» che, confinando con il gaudium della mistica cristiana, trasformava i passi del corteggiamento amoroso in altrettanti atti di omaggio religioso, era stata definita «Vera Luce» da Guiraut di Borneill. Rigaut di Barbezieux, che aveva accostato l’estasi prodotta dalla visione dell’amata a quella indotta in Parsifal dalla processione del Graal, avrebbe voluto «pregare» al cospetto di lei. Non è questione, qui, di languidi sdilinquimenti. Nettata dalle convenzioni cortesi, l’invocazione della Donna ebbe, spesso, tenore liturgico, elevò l’amata a mistica agapeta; e se il vero grazir (dono) dell’amie era il suo farsi «scala per il cielo», non fa meraviglia che il trovatore Guiraut di Narbona, alfiere della fedeltà sacrale, giunse a cantare la Vergine nelle forme dell’amor cortese.

Il Sacro Amore è, infatti, empito di reintegrazione edenica, supremo anelito all’Unità, anche quando ha per oggetto l’umano, anche quando è fervore mistico per una creatura che, contemplata nella sua dimensione atemporale, si dilata nei cieli dello spirito sino a divenire una cosa sola con la realtà archetipica dell’amante. «Ecce Deus fortior me…!» dirà l’Alighieri nella Vita Nova, ma già nel Lancelot ou le Chevalier de la Charrette, pubblicato fra il 1176 ed il 1180, affiorava una concezione della donna che, affatto estranea a quella organica all’ordine costituito, rifletteva una spiritualità che non si spiega solo con i processi di «psichismo sociale» o con la «tensione della libido alla sublimazione» di cui ha scritto Armanda Guiducci: [1] Lancillotto, «attento a non toccare» una fanciulla coricatasi al suo fianco, giunge finanche a inginocchiarsi dinanzi alla stanza della sua sovrana: «Au departir a soploié/ a la chambre, et fet tot autel/ con s’il fust devant un autel… » [2]. L’amore si fa qui adorazione estatica, senti- mento mistico, fatale tappa di un itinerario spirituale che può distruggere l’amico donargli le ali. Pronto a sacrificare, per Ginevra, il suo stesso orgoglio di cavaliere, Lancillotto «non ha forza né difesa di fronte ad Amore», che gli è del tutto sovrano: «egli dimentica se stesso, non sa più se esista o non esista, non ricorda il proprio nome, né se è armato o meno, dove vada e donde venga; non ha memoria di nulla, se non di una sola cosa, per la quale ha dimenticato ogni altra». Indifferente agli oltraggi, «perché non v’è dubbio che accresce assai il proprio merito colui che obbedisce ai comandi d’Amore», l’eroe di mille battaglie si sente mancare quando ritrova un pettine appartenuto alla regina: rimirando i «belli, chiari e luminosi» capelli rimasti impigliati, li tira fuori con tanta solenne delicatezza «da non spezzarne uno solo»; e riponendoli «accanto al cuore, tra la carne e la camicia», si sente «al riparo da ulcerazioni e da ogni altro male». «Ha tanta fiducia in quei capelli» che «non abbisogna d’altro aiuto»; giacché a «questo amore», confessa l’eroe nel Perlesvaus, «debbo tutto ciò che vi è di buono in me». E’ un amore adultero, un amore angelico e dannato. Ma, come quello del Tristan, odora di incenso più che di zolfo. Anche nel Parzival, «Bildungsroman» di Wolfram von Eschenbach, si dice di confidare «più nelle donne che in Dio»; ed è una donna, la giovane Obilote, a dire arditamente al cavaliere Galvano: «Se avrete fede in me, fortuna e forza non vi abban- doneranno» [3]. Non è il buon Dio ad esser qui negletto, bensì la concezione fallica e spenta del veterotestamentario «Dio degli Eserciti».

Non vi è, in effetti, amore angelicato che non riveli un’inconscia ricerca dell’e- terno. Non vi è relazione amorosa che non presenti, negli istanti apicali, i tratti mistici di un rapimento estatico. Chiunque abbia conosciuto la vertigine di un’unione radicale, l’incantesimo che fa ammutolire l’anima e risuonare nel silenzio la melodia intemporale dello Spirito, sa della dimensione uranica che può assumere l’abbraccio in cui l’altro sia divenuto l’Universo. Può capire perché Parsifal – che «serbava per lei il vero amore che non vacilla» e che dirà a Galvano: «Amico, nell’ora del tuo combattere sia una donna a guidare la tua mano» – avesse accolto Condwiramurs nel suo letto senza che «le membra che conciliano amore» fossero portate dall’«uno all’altra». Opposto all’amor profano ch’era stato causa della ferita di Amfortas, l’hohe minne per Condwiramurs accompagna l’eroe nelle selve dell’anima, lo preserva dalle insidiedi Orgeleuse, lo conduce per mano alla corona del Graal. Egli pensava, infatti, solo «alla sua donna», «alla sua casta dolcezza. Doveva egli forse porgere a un’altra il suo saluto, offrirle per amore i suoi servigi, nutrire pensieri di incostanza? No, da un tale amore egli si guarda bene. Grande fedeltà gli ha serbato puro il cuore e la persona; in verità nessun’altra donna poteva avere il suo amore, fuor che la regina Condwiramurs, la belle fleur florissante».

Lo stesso Titurel, che custodiva il Graal con l’aiuto dei Templeisen, aveva trovato consolazione nel «puro amore» e nel potere della «dolce grazia»: ed ove si pensi al fremito di risveglio spirituale che aveva attraversato la christianitas nella temperie delle Crociate; ove si consideri l’influenza della poesia mistica islamica e delle speculazioni gnostico-mariologiche sulla figura di Fatima nella Shi’ia ismailita, non può sorprendere che per Albrecht von Scharfenberg, l’autore dello Jungerer Titurel, una delle principali cappelle del Graalsburg fosse sì dedicata a Maria: ma «come Sophia».

Da: http://www.lopanepaolo.it/1/contributi_storiografici_1844469.html . Si tratta di uno studio che l’autore aveva già parzialmente pubblicato in «Vie della tradizione», a. XXXVI, n. 143 (luglio-settembre 2006).

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Note

1 Cfr. A. Guiducci, Introduzione a: D. de Rougemont, L’amore e l’Occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea; trad. it., Rizzoli, Milano 2006, p. 33.

2 Vv. 4716-4718. Si vedano anche i vv. 4651-4653: «… et puis vint au lit la reine / si l’aore et se li ancline /, car an nul cors saint ne croit tant» («… ed accostatosi al letto della regina, l’adora e s’inchina come chi nulla reputi altrettanto sacro»).

3 Per il Parzival mi sono avvalso dell’ottima traduzione di G. Bianchessi in Wolfram von E- schenbach, Parzival; Milano, Ed. Tea, 1989.

Nell’immagine sopra: Affresco di Pietro Lorenzetti, nella basilica di San Domenico a Siena, San Giovanni Battista presenta un cavaliere alla Madonna col Bambino.

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