La Festa de le Curadure, il 12 luglio di ogni anno

Curà nell’antica parlata locale significa pulire; si potrebbe fors’anche tradurre: mettere in ordine, avere cura di qualcosa. È un verbo che sottintende due tempi e, parlando, l’ascoltatore deve capire di quale il parlante si serve. Il primo è un tempo in evoluzione, sicché curà è andare avanti nella pulizia di qualcosa, avere una (la) cura costante di qualcosa, per cui equivale anche adavere un impegno. Il secondo tempo è, si potrebbe dire, conclusivo, nel senso che curà significa anche portare a termine un impegno, una cura, una pulizia.

La Festa de le Curadure, del Baliato dai Coi, è la festa dei compatroni, i Santi Ermàgora e Fortunato, il 12 luglio, data che un tempo era considerata la fine dei lunghi lavori di pulizia dei campi, per lo più di orzo e di fava, che si stendevano sia sotto che sopra il paese di Coi e di Col. È un data molto avanti nella stagione agricola, rispetto alle zone di pianura, e fa capire come i campi fossero molti o, forse ancor più, come la maturazione dei prodotti seminati a quote alte come le nostre (sui 1500 metri di altitudine e per qualche area anche oltre) fosse sensibilmente tardiva, permettendo a fine stagione un solo raccolto, sufficiente e qualcosa in più ma mai abbondante. Nonostante questa difficoltà, legata all’altitudine, Coi e Col erano però ancor più avvantaggiati di altri villaggi (masi all’origine), che, pur posti più in basso, avevano meno disponibilità di terre adatte all’agricoltura, perché poco soleggiate, o troppo pendenti o franose o ghiaiose o per altre cause. Certo, vigeva la regola non scritta dell’accettare la fatica, abbastanza gravosa, dell’agricoltura in montagna, con strumenti semplici e funzionali ma di poca produttività.

Non bisogna dimenticare, poi, che molte persone di Coi e Col possedevano campi in località più basse, coi prodotti dei quali integravano la resa di quelli circostanti i due villaggi. Ancora nel Settecento, alcune famiglie avevano campi a Rutórbol, come i Pellegrini Beretìn, e nei dintorni (compreso Iral) e alcuni Rizzardini ne avevano comprati alcuni ad Astragal. Il comprare o investire in fondi immobili, prati e campi, era il sogno di tutte le famiglie; la ricchezza era sempre vista in collegamento con la proprietà terriera, mentre altri tipi di guadagno erano visti come più insicuri. Gli investimenti a Rutorbol e Astragal documentano pure la tendenza degli investimenti, qualora fosse stato possibile farli; essa andava dai villaggi alla parte sovrastante, anche lontana e ai piedi dei monti, per i prati; andava dai villaggi alla parte sottostante per l’acquisto di campi. Ben rari, per non dire inesistenti, gli acquisti di terra in località fuori valle, segno che le famiglie non avevano reale interesse a simili acquisti, pur potendo avere, qualcuna almeno, la possibilità di farlo. L’acquisto di terra fuori valle, come nel caso dei Rizzardini Ogióin,equivaleva ad un trasferimento e abbandono di Coi e Col, perché si continuava la coltivazione diretta del fondo acquistato, mentre non era ipotizzabile (fatte salve rarissime eccezioni) l’acquisto, ad esempio, di campi nella Marca o nel Cenedese, per lasciarli in gestione a dei contadini dipendenti.

curà i campi, curve sulla terra, erano quasi solo le donne, di ogni età, soprattutto le nubili, che, per un piccolo contributo, le ‘ndava a curà, ossia si mettevano a disposizione delle famiglie più benestanti e, in pratica, alle dipendenze di altre donne, paróne de casa. Magari con la speranza che da questa particolare forma di andà a servì, giornaliera anche se per giorni ripetuti, nascesse una futura conoscenza fruttuosa; cosa però non facile, perché nelle stesse ore i maschi di casa lavoravano altrove, magari a Venezia. A proposito di paróne de casa, alcune devono essere state tremende, anche con marito e figli. Un documento del nostro Archivio storico parla di una donna che dava ordini, «nero su bianco», a sa óm (a suo marito), facendogli una specie di scaletta delle cose che doveva fare; fa persino sorridere (anche se non sta bene) pensare a come dev’essere stata la vita di quel povero disgraziato. Figurarsi, dunque, come donne del genere trattavano quelle che andavano a loro servizio, magari per curà! Dai documenti d’archivio risulta, purtroppo, anche il contrario, ossia di alcuni uomini d’una villania ributtante per le loro spose, trattate semplicemente come «macchine da riproduzione» e «macchine d’allevamento» dei figli o, al più (se è un «al più») della ricchezza della casata.

Donne e uomini estremisti erano, per fortuna, una minoranza, anche se non proprio piccola e la Feste de le Curadure, per le fémene del curà di allora dev’essere stata una specie di loro festa e, assieme, di festa della liberazione ante litteram. Una festa cristiana nel senso vero della parola, perché è solo con Cristo che l’essere umano, maschio e femmina, trova una sua dignità assoluta, svincolata dalla posizione sociale che uno si trova ad avere e da altre sue condizioni specifiche, di identità e di altro ordine. Credo, per l’eco che è giunto fino a me di quei tempi andati, che le donne, in particolare ma non solo, sentissero perciò la festa, qualsiasi festa, come un momento di dignità recuperata, di liberazione dalla condizione servile, sia pur volontaria ma sempre fin là e là, in quanto costrette a subirla dalle loro deboli condizioni economiche personali e dalla pressoché inesistente tutela che potevano ricevere dalla società, al di fuori della religione.

Nella preziosa fotografia sotto: Longarone nel 1900 con, in primo piano, donne nei campi. – La seconda fotografia è tratta da: Dialetto Conflentese – blogger, marzo 2014; non è locale, ma illustra una situazione identica alla nostra.

 Don Floriano Pellegrini 

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