LE STORIE SVELTE

Di don Floriano Pellegrini 

Le storie svelte

  1. Una bella definizione dell’umorismo

Dell’umorismo sono state proposte varie definizioni, ma la più azzeccata è, a mio parere, quella di Enrico Nencioni, del 1884. Egli osserva, anzitutto, che «vi è una babilonica confusione nell’interpretazione della voce umorismo. Per il gran numero, scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere: il comico, il burlesco, il satirico, il grottesco, il triviale».

A questo punto scrive che, no, l’umorismo è piuttosto «una naturale disposizione del cuore e della mente a osservare con simpatica indulgenza le contraddizioni e le assurdità della vita. Ogni nostro riso ha per origine un’apparente o latente contraddizione. I terrori di Sancho, le allucinazioni di Don Chisciotte, i vanti di Falstaff, le paure di Don Abbondio ci divertono per la loro sproporzione con la realtà delle cose. Il sentimento e la meditazione del disaccordo fra la vita reale e l’ideale umano, fra le nostre aspirazioni e le nostre debolezze e miserie, è il fondo d’ogni vero umorismo; il quale nasce più dal cuore che dalla mente… E l’osservazione e la pittura umoristica vanno unite generalmente a un benevolo scetticismo, a una tolleranza che è frutto di dolorose esperienze morali degli individui: il satirico s’indigna, l’umorista si diverte, s’interessa nella sua rappresentazione, e finisce col commuoversi e comunicarci la sua commozione».

E’ una definizione profonda.

 

  1. L’ambasciatore con le bugie in testa

Tra i proverbi del re Salomone, uno dice: «Come la gloria dei giovani è nella robustezza, così la dignità dei vecchi è nella canizie».

Tuttavia, fin dai tempi più lontani non tutti apprezzavano questa sentenza. A cominciare da Pirro, che pare proprio si tingesse i capelli di nero. Ebbene, quando a Sparta era re Archidamo, giunse da Atene un ambasciatore ch’era solito tingersi le chiome e, a quanto si narra, in maniera fin troppo evidente.

Archidamo, al momento di riceverlo lo lasciò venire avanti, scrutandolo attentamente, per avere la certezza che i suoi sospetti corrispondevano a verità; poi, mentre l’ambasciatore stava per iniziare il suo discorso, il re si alzò e, tra lo stupore generale, disse tranquillo: «Che potrà mai dire di vero costui, che porta in capo la menzogna?».

 

  1. Demostene e i giudici di Atene

Una volta Demostene, famoso oratore greco, stava nell’Areopago di Atene perorando la causa d’un pover’uomo, che stava per essere condannato a morte. Vedendo che i giudici, invece di star attenti alle sue parole si mostravano più che mai disattenti e annoiati, pensò di dar loro una solenne lezione.

S’interruppe d’un tratto e disse: «Signori giudici! Ho da raccontarvi un fatto singolare». E cominciò a narrare la storiella d’un uomo che, preso ad affitto un giumento per recarsi ad Atene, strada facendo, essendo spuntato un sole cocente, discese dall’animale e si mise a camminare alla sua ombra. Di qui le proteste del padrone dell’animale, che gli contestava il diritto di far ciò, dal momento che aveva pagato il fitto solo dell’animale e non anche della sua ombra; di qui le contro-proteste dell’altro, che si riteneva in pieno diritto. Ne nacque una rissa, prima di parole, poi coi fatti e che, infine, i due portarono davanti al tribunale…».

I giudici stavano con tanto d’occhi e d’orecchie ad ascoltare.

A quel punto Demostene prese il copricapo e fece finta d’andarsene. E i giudici a gridargli dietro: «Fermatevi! Fermatevi! Diteci almeno come andò a finire!». Allora Demostene, indignato e assumendo un tono di mordace rimprovero, disse loro: «Ah, signori giudici! Poco fa peroravo la causa della vita d’un uomo e voi dormivate; ora vi racconto la storia dell’ombra di un asino e state lì, a bocca aperta, ad ascoltarmi. Vergognatevi!».

 

  1. Il rispetto degli Spartani per gli anziani

Gli antichi Spartani erano un popolo energico, valoroso e virile. Si erano imposti la legge che, all’arrivo di una persona anziana, i giovani s’alzassero in piedi, che tacessero quand’essa parlava e che, insomma, le mostrassero profondo rispetto.

Una volta un vecchio ateniese andò allo stadio, per assistere ai giochi olimpici. Tutti i posti a sedere dell’anfiteatro erano occupati e alcuni giovinastri, suoi concittadini, gli accennarono di avvicinarsi, ma poi lo beffarono. Respinto da un luogo e dall’altro, il povero anziano giunse infine nell’ala dove sedevano i giovani di Sparta. Subito essi si alzarono in piedi e lo invitarono a prendere posto tra loro.

Il più vivo applauso si levò, a quel gesto, da ogni parte dello stadio.

Del resto, si diceva, e forse giustamente, che gli Ateniesi conoscevano la virtù, ma erano gli Spartani a praticarla!

 

  1. Filippo il Macedone e il denigratore

Alcuni membri della corte del re greco Filippo il Macedone, significativamente venuti a chiamarsi ex toto genere suo e per ogni tempo cortigiani, suggerivano al re di mandare in esilio un tale che lo andava denigrando.

«Me ne guardo bene», rispose il re; «egli andrebbe dappertutto a ripetere quello che ora non dice che qui».

Il che significa che i tiranni e le persone autoritarie in genere trovano utile essere criticati, ne ricavano del positivo e guadagnano, a beffe dei loro critici, un’aureola di persone misericordiose e tolleranti; purché la libertà di parola sia nei loro riguardi, come dicono, «un abbaiare che non morde»; altrimenti gettano la maschera e si mostrano quali realmente sono.

 

  1. I primi medici romani

In una dotta memoria, presentata a Londra nel 1915 al Congresso internazionale di medicina, il dott. Capparoni, parlando dei suoi studi sulle iscrizioni relative ai medici rinvenute nelle catacombe romane, affermò d’aver notato che, nei primi secoli dopo Cristo, a Roma la medicina era esercitata quasi esclusivamente da liberti di madrelingua greca. Anche il primo medico certo della capitale fu un greco, Argacasto, che nel 219 a. C. aprì un ambulatorio nel Foro; prima di allora non v’erano medici.

Ed ecco un primo dato notevole: i medici di Roma, dopo Argacasto, furono anch’essi, tutti, schiavi o liberti d’origine greca; in tutte le famiglie patrizie romane, s’era diffusa la prassi d’educare uno schiavo o liberto nell’arte della medicina, che poi avrebbe potuto però esercitare solo nell’ambito domestico.

Tenendo presente ciò, si comprende meglio, almeno in parte, come molte delle numerose iscrizioni sepolcrali rinvenute nelle catacombe si riferiscano a medici cristiani. Diffondendosi il cristianesimo «a macchia» nella classe sociale degli schiavi, meno legata alle istituzioni e al culto ufficiale pagano, esso aveva trovato parecchi aderenti pure tra i medici, che di quella classe costituivano uno dei gruppi più colti e influenti.

E’ un dato storico che porta a correggere la prospettiva marxista, diffusa ma errata, che i primi cristiani, essendo della categoria definita degli schiavi o dei liberti, fossero tutti o quasi degli ignoranti e degli sfruttati.

 

  1. I trovatelli

Presso gli antichi la padronanza dei padri sui figli era assoluta, tanto che potevano gettare i neonati sulla pubblica via, come facevano con rifiuti.

A Sparta i bambini deformi venivano gettati in un baratro (si osservi la finezza: non sulla pubblica via! ).

A Tebe era proibito ucciderli, ma, se il padre non era in grado di mantenerli, poteva venderli come schiavi; era già un passo avanti.

A Roma, Romolo ordinò di conservare in vita solo la figlia primogenita e di uccidere le altre; con leggi successive, i padri vennero autorizzati a uccidere i deformi; l’aborto era molto praticato e raffinato.

Nell’antichità gli esposti in luogo pubblico divenivano proprietà di chi li faceva suoi, adottandoli (ricordiamo Mosè) o vendendoli a terzi, come schiavi.

Furono i cristiani, per primi, a giudicare apertamente delitto l’uccidere un nascituro o un bambino. Nacque l’idea di raccoglierli e, dopo l’editto di Costantino, si aprirono i primi asili per abbandonati e si pensò d’aiutare i genitori bisognosi. Lo stesso Costantino, per evitare gli infanticidi, ordinò che lo Stato intervenisse per aiutare i genitori impossibilitati d’alimentarli.

Una delle accuse che Giuliano l’Apostata faceva ai cristiani era quella d’essersi acquistato favore presso il popolo con opere di carità e principalmente con il raccogliere i bambini abbandonati, chiamati esposti.

Il concilio di Arles, del 356, stabilì delle pene severe contro i cristiani che avessero esposto i figli.

Il primo orfanatrofio a Milano fu aperto nel 785, a merito d’un prete Dateo.

Nel medioevo continuò l’opera di aprire asili e già nel XV secolo non v’era città in Europa dove non ne esistesse uno, per raccogliere i bambini trovatelli o, meglio, criminalmente abbandonati (sappiamo che presso i conventi c’era persino una ruota…).

In Francia, più tardi, come tutti sanno, se ne occupò moltissimo San Vincenzo de Paoli, istituendo le Suore della Carità, a favore degli abbandonati, e invitandole ad essere loro madri. Il suo esempio contagiò di carità sia le famiglie nobili che popolane.

In Italia grande merito ebbe il nobile veneziano Girolamo Miani.

Con tutto ciò, c’è chi dice che il cristianesimo è stato l’oppio dei popoli; ma chi lo dice non ha fatto neppure questo, sopra ricordato, trasformando spesso, al contrario, la vita terrena di interi popoli in un inferno, che, stando alla definizione d’inferno data da Santa Teresa d’Avila (1515-1582) è: «Il luogo dove non si ama più».

 

  1. Il significato dei Carrocci

Il termine «carroccio» si scriveva con l’iniziale maiuscola, perché questi carri erano considerati sacri, come altari: prima dell’uso venivano benedetti e su di essi venivano posizionati i simboli più alti della fede e della patria. L’invenzione stessa dei Carrocci, del resto, era dovuta a un arcivescovo di Milano, Eriberto, il quale nel 1039 ne aveva fatto costruire uno per animare le schiere dei suoi valorosi guerrieri, impegnati contro i nemici oppressori. In seguito, l’uso dei Carrocci si estese a tutta la Lombardia e non v’era città che non avesse il suo.

Portati sul campo di battaglia, questi grandiosi carri erano un’immagine dell’Arca Santa trasportata dagli Ebrei e, poi, custodita nella parte più sacra del tempio di Gerusalemme. Avevano quattro ruote, grandi e foderate di ferro. Al centro reggevano una lunga e grossa antenna, avente in cima una croce e, sotto di essa, una campana. Un altro Crocifisso pendeva verso la metà dell’antenna; ai suoi piedi c’era un altare, dove un sacerdote celebrava le Messe. I Carrocci erano rivestiti con ricchi addobbi e tirati da tre o quattro paia di robusti buoi, anch’essi coperti di ricche gualdrappe.

I Carrocci servivano come segno d’unione, specialmente per la fanteria, e il parco a loro intorno era così vasto da poter contenere un drappello di circa cinquanta valorosi. Dal momento ch’era stata dichiarata una guerra, si faceva suonare ogni sera la campana del Carroccio, come segno di sfida al nemico e per incitamento della popolazione a resistere. L’usanza di suonare le campane, non solo dei Carrocci, per animare i soldati era consueta in Europa e vi rimase a lungo.

 

  1. La fondazione delle Università del Regno Unito (e della Sorbona)

Le più celebri Università europee sono iniziativa d’ecclesiastici.

Quella di Cambridge, del XIII secolo, è da far risalire all’abate Gioffredo. Inglese, dopo aver studiato ad Orléans, in Francia tornò nel Lincolnschire e divenne abate di Croyland. Da lì mandò nel suo possedimento di Cothenam, presso Cambridge, quattro monaci, suoi discepoli francesi, a insegnare dottrine sacre, filosofia e lettere. Presero in affitto un granaio a Cambridge e iniziarono ad insegnare alta cultura. Il numero degli alunni crebbe a dismisura. Frate Oddo, letterato e poeta, insegnava grammatica; un altro frate al mattino insegnava logica aristotelica e al pomeriggio, alle quindici, frate William retorica (l’arte del parlare corretto). Il maestro Gislébert di sabato e domenica predicava al popolo. Tutt’oggi vi sono decine di colleges per studenti.

L’Università di Oxford sorse alla stessa maniera (nella sua colossale biblioteca vi sono, tra l’altro, 30 mila messali).

La Scuola di York è stata fondata da sant’Egberto, discepolo di Beda il Venerabile e, dal 732, arcivescovo di York.

Dalla Scuola di York uscì il monaco Alcuino, maestro e “ministro della pubblica istruzione” (ante litteram) di Carlo Magno. Alcuino fondò lo Studio Superiore Generale di Parigi, che, con il canonico de Sorbon, qualche secolo dopo l’abate Jeoffred, fiorì e divenne l’Università della Sorbona.

 

  1. Bernabò Visconti e la Bolla di scomunica

Si era nel 1370. L’inimicizia tra papa Urbano V e il signore di Milano, Bernabò Visconti era diventata aperta ostilità. Bernabò godeva fama d’uomo feroce e dispregiatore dei patto. Nessuno si stupì, perciò, d’apprendere che il papa gli aveva inflitto la scomunica, la condanna più grave per un principe della cristianità.

Latori della Bolla furono designati il cardinale di Belforte e l’abate di Farfa, che avrebbero fatto volentieri a meno dell’incarico, ma dovettero adattarsi. Al momento della consegna, Bernabò parve prendere la condanna papale con più filosofia di quanto sembrava lecito aspettarsi. Anzi, arrivò ad insistere che gli fosse concesso d’accompagnare i due dignitari fino ai limiti della città. I prelati, sbalorditi, non sapevano cosa pensare.

Giunti al ponte sul Naviglio, all’improvviso Bernabò si fermò, mentre la cerchia delle guardie si chiudeva intorno ai due ambasciatori papali; con finta cortesia, chiese poi loro se volevano bere o mangiare. I due erano incerti, ma consapevoli ch’era una minaccia. «Vi domando», ripeté il Visconti scuro in volto come un temporale, «se intendete bere o mangiare; non uscirete dai miei Stati senza aver mangiato o bevuto; non fate questo torto alla mia cortesia». Finalmente uno dei due, guardando le onde che gorgogliavano rapide e minacciose sotto le tavole del ponte, rispose: «Tant’acqua non mette voglia di bere: mangeremo».

«Benissimo», replicò il signore di Milano, che non aspettava altro; «ecco la vostra Bolla; uscirete di qui solo dopo averla mangiata: cartapecora, nastro, sigilli, piombo e tutto quanto». E s’accomodò al parapetto per assistere a quello sgraditissimo pranzo.

La scomunica naturalmente non fu abolita per la distruzione materiale della Bolla che la materializzava – semmai ne fu rinforzata – ma Bernabò poté rientrare in Castello con la sensazione d’avere fatto quanto stava in lui per ristabilire il rispetto che si credeva dovutogli.

 

  1. San Francesco di Sales a Milano

Il 15 aprile 1613 l’arcivescovo di Ginevra Francesco di Sales (che sarebbe diventato santo) si mise in viaggio per Milano. Passati il Moncenisio, Torino e Cercelli, accompagnato da alcuni sacerdoti e un domestico laico, giunse a Milano il 25 aprile. Venne accolto con tutti gli onori dal governatore della città, Don Juan de Mendoza, e dall’arcivescovo Card. Federico Borromeo, che si offrì di ospitarlo nel suo palazzo. Ma il di Sales, che voleva star lontano dal clamore fatuo delle mondanità, chiese di poter alloggiare nel convento dei padri Barnabiti e, possibilmente, come fu possibile, nelle camere in cui dimorava San Carlo Borromeo, quando vi si recava a fare gli esercizi spirituali.

L’indomani, poté celebrare all’altare dello stesso San Carlo e si volle che fosse rivestito di ricchi paramenti. Al termine della messa, assieme ai sacerdoti e al laico andò a visitare la città, delle cui bellezze, a cominciare dal duomo, essi erano incantati.

Finché uno gli domandò che ne pensasse delle meraviglie che avevano visto e San Francesco col suo abituale candore rispose: «Non ho visto niente». «Niente?», soggiunsero quelli; «Com’è possibile? Vostra Eccellenza avrà visto almeno le gemme di cui erano ornati i paramenti con i quali ha celebrato la messa». «No», rispose; «Mi sono fermato a contemplare le ricchezze spirituali di un tempio vivo, di cui il duomo è solo un riflesso».

Intendeva dire che non gli interessavano le grandezze mondane e s’era concentrato molto di più sulla santità di San Carlo, da lui definito tempio vivo della presenza di Dio in città.

 

  1. La scoperta della Fucsia

La pianta della Fucsia venne scoperta nell’anno 1664, sulle montagne della Nuova Granada, da padre Plumier, dei Minori Osservanti, che le impose il nome di Fuchsia per onorare la memoria del celebre botanico e medico Leonardo Fuchs, del quale ci rimangono parecchie opere (in latino).

La Fucsia è una pianticella dai fiori penduli ed eleganti, che appartiene alla famiglia delle piante di fiori così dette legnose, che abbondano nel Messico e nell’America del Sud.

E’ considerata un simbolo di gentilezza e amabilità.

 

  1. I simboli dell’Ortensia

La pianta dell’ortensia prende il suo nome da una donna coraggiosa, Ortensia Lapaute, che per prima fece il giro del globo.

E’ caratteristica per il cambiar colore dei suoi fiori, da rosei ad azzurri e violetti. Da ciò, uno scrittore in vena di fantasie poetiche disse: «Era lieta la fanciulla quel dì in cui vide sbocciare il primo fiorellino azzurro come l’iride degli occhi suoi; ma allorché l’azzurro cambiossi in un bel rosa incarnato, non più gioì la poverina, ma si ebbe una stretta al cuore. E quando poi vide l’ortensia colorirsi in bianco, pianse, allora… pianse perché s’avvide che quel fiore era degno dell’incostanza di quaggiù».

Parole graziose ma inutili, come la credenza d’alcuni che l’Ortensia sia simbolo d’incostanza (come accennato), indifferenza, insensibilità e persino bellezza senza grazia; lo scrittore Dall’Ongaro, alla ricerca di nuovi significati,  l’immaginò simbolo di perenne rimembranza. Visto come vanno le cose, potrebbe essere, più che altro, il simbolo eloquente dei politici trasformisti.

 

  1. Duval e il cortigiano saccente

Il celebre Duval, bibliotecario di Francesco I di Francia, rispondeva sovente non lo so alle domande che gli venivano rivolte in materia scientifica.

«Ma, caro mio», gli disse una volta un cortigiano ignorante e presuntuoso; «il re vi paga perché sappiate».

«V’ingannate, signore», rispose modestamente il bibliotecario; «il re mi paga per quello che so e so fare, perché se mi dovesse pagare anche per quello che non so, non basterebbero tutti i tesori della Francia».

Succede, infatti che chi non sa, spieghi a chi sa, senza accorgersi del ridicolo in cui si mette e della pena che provoca agli astanti, oltreché al diretto interessato, al quale non resta che sopportare pazientemente (fino ad un certo punto) quel molesto.

 

  1. Lo czar Pietro il Grande odontoiatra

A proposito di crudeltà auto-legittimata. Il giovane zar Pietro, destinato a entrare nella storia come Pietro il Grande, nell’estate del 1697, viaggiando in Europa, incominciò a interessarsi di medicina e volle persino assistette a delle operazioni chirurgiche. I gentiluomini del suo seguito, entrati con lui in una sala d’anatomia, ad Amsterdam, facevano smorfie di disgusto e faticavano a reprimere la nausea; ben ci immaginiamo la scena di tali parrucconi. Ed ecco la crudeltà: visto il loro spavento, Pietro li obbligò ad abbracciare, uno per uno, tutti i cadaveri. Invano l’anatomista capo, il famoso dottor Boergawe, cercò di dissuadere il principe, suggerendogli, spaventato, le possibili conseguenze sanitarie di quel gesto; Pietro, imperturbabile, disse: «Voglio fare di questi barbari [!] delle persone civilizzate».

Ma il colmo dell’entusiasmo giunse per lui quando entrò in contatto con i più aggiornati dentisti dell’epoca. Subito, lo zar si procurò un corredo di strumenti di chirurgia dentaria, poi, fatte venire 250 persone del seguito, le sottopose a un’accurata ispezione della bocca. Dove appariva un dente guasto, Pietro impugnava le sue tenaglie, di buona marca olandese, e via! La sua forza fisica era tale che, specie nei primi tempi, insieme ai denti volavano via pezzi di gengiva e di mascella…Questa passione gli rimase, purtroppo per chi lo frequentava, tutta la vita. Tra i suoi scrigni con oggetti preziosi, conservava parecchi sacchetti pieni di denti, strappati ai suoi sudditi. Se gli capitava di vedere qualcuno dei cortigiani o dei ministri con il viso alterato, lo zar esclamava: «Ah, figlio d’un cane, hai mal di denti e vorresti nasconderlo al tuo sovrano? Aspetta un momento!». E un altro dente andava ad accrescere le sue collezioni.

 

  1. Papa Benedetto XIV e il presunto Anticristo

Un frate settuagenario chiedeva insistentemente d’essere ricevuto da papa Benedetto XIV. Ammesso finalmente alla presenza del pontefice, gli si gettò ai piedi, piangendo disperatamente.

«Che avete?», domandò il papa.

«Ah, Santità!», rispose il frate; «mi è stato rivelato che è venuto al mondo nientemeno che l’Anticristo».

«E quanti anni vi si dice che abbia?», riprese imperturbabile Benedetto XIV.

«Tre anni e mezzo».

«Bene, bene», concluse il papa; «questo è dunque un affare che riguarderà il mio successore».

 

  1. La scuola napoletana per diventar ladri

A Napoli, al tempo dei viceré e anche oltre, fino all’epoca dell’invasione francese, fra le classi sociali più povere della città vi era quella dei «lazzaroni», così denominati perché i dominanti spagnoli li chiamavano con disprezzo «los Lazaros» (riferendosi al misero Lazzaro d’una parabola del vangelo, quello che disputava le ossa ai cani presso la porta della casa di Epulone).

I Lazzaroni costituivano una classe disprezzata, ma erano tipi faceti, di bell’aspetto e, soprattutto, accorti. La vita stessa richiedeva che lo fossero, se volevano sbarcare il lunario. Si dedicavano per lo più ai furti. Per dormire avevano le scale d’una chiesa, le panche delle piazze pubbliche o l’atrio di qualche palazzo nobile.

Al tempo dei viceré i più famosi saccolari tenevano persino dei corsi, per insegnare la teoria e la pratica del borseggio. Le lezioni si svolgevano in apposite… aule scolastiche, dove era posto un fantoccio, della grandezza d’un uomo, ch’aveva cuciti sulle vesti numerosi campanellini. Gli alunni dovevano riuscire a togliergli la borsa, l’orologio o il fazzoletto senza far tintinnare un solo campanello.

I governanti della città sapevano e lasciavano correre, fedeli al principio che il ladro malaccorto fosse degno di punizione, ma un campione di destrezza quasi degno di stima.

 

  1. Alessandro Pope e Giorgio II

Alessandro Pope, il grande poeta inglese, era gobbo e, per giunta, aveva le gambe storte. Un giorno, Giorgio II vedendolo passare disse ai suoi accompagnatori: «Vorrei sapere a che cosa serve quell’omiciattolo, che cammina per traverso».

Pope, che aveva udito, si voltò e disse: «A farvi camminare diritto, Maestà».

 

  1. Il duca agricoltore e il porcaro

Durante l’esilio a Chanteloup, cui alla fine del 1770 l’aveva condannato Luigi XV, il duca di Choiseul, pure in mezzo al fasto d’una dimora regale, amava occuparsi delle sue terre e in particolare dell’allevamento del bestiame. Per esso aveva delle cure straordinarie (buoi, giovenche, porci avevano mangiatoie e truogoli di marmo), e in cambio poteva vantasi di qualcosa anche lui: d’essere il miglior proprietario di fondi agricoli.

Un giorno, facendo il suo quotidiano giro d’ispezione, domandò al contadino che faceva da capo-guardiano dei porci come si comportassero i suoi… allievi. L’uomo, così interpellato, non sapeva che rispondere, poi, a capo chino e col cappello in mano, tra il commosso e il sorridente rispose: «Bene, benissimo. Ma che onore fate ad essi, signor duca!».

Dire a un duca, come a qualsiasi altra persona, che fa onore a dei porci non è (a rifletterci solo un poco) un bel complimento, ma l’anima semplice del contadino in quel momento non aveva saputo trovare di meglio di quella frase, per mostrare la sua gratitudine (non quella dei maiali) alla visita del padrone.

Questa storia ci deve far ricordare la verità che l’istruzione è un diritto e un dovere di tutti, e ci mostra eloquentemente quante assurdità c’erano nel «bel mondo antico» tra coloro che, indifferenti alle sofferenze umane, si preoccupavano più dei porci che dei loro contadini.

 

  1. Diderot e il vecchio catechismo della diocesi

Il famoso filosofo ed enciclopedista francese Diderot credeva tanto importante la formazione religiosa, in contrasto con quanto si crede, che ogni giorno s’intratteneva a spiegare la religione a sua figlia.

Un giorno venne sorpreso dall’amico Beaurzée, membro dell’Accademia di Francia, mentre con il massimo impegno stava attendendo a tale formazione. Stupito, l’amico gli chiese: «Come? Voi, filosofo, dedicarvi a queste cose?».

E Diderot, senza punto scomporsi: «Che volete!», rispose, «A me sta a cuore di ben istruire la mia amata figliola e, fatte molte ricerche, non trovai libro migliore, a tale scopo, del catechismo della nostra diocesi. Non vi stupite: mi valgo del catechismo perché lo riconosco come il più sicuro trattato di pedagogia. Qual più sodo fondamento potrei dare all’istruzione della mia figliola?».

 

  1. Le giuste impazienze del marchese de Saint-Cyr

Com’è noto, i rivoluzionari francesi del 1793 avevano abolito i titoli di nobiltà e sostituito all’antico, e allora vigente, calendario cristiano, con il ricordo dei Santi, uno da essi inventato, nel quale i Santi non erano neppure lontanamente menzionati.

Un giorno, il marchese de Saint-Cyr un giorno fu chiamato al municipio di Parigi, per un affare di ordine amministrativo e dovette sorbirsi questo trattamento.

«Come ti chiami, cittadino?», gli domandò il cancelliere.

«Marchese de Saint-Cyr»

«Non vi sono più marchesi!»

«Allora, de Saint-Cyr»

«Non si ammettono più de

«Saint-Cyr, allora»

«Non ci sono più Santi!»

«Chiamatemi Cyr»

«Non vi sono più Sire »

«Datemi dunque il nome che volete, purché sia finita!», esclamò infine il marchese, impazientito, «ma andiamo avanti!».

 

  1. Il valore di un’espressione di spirito

Si era a Parigi, nella primavera del 1794. Al tribunale rivoluzionario, Fouquier-Tinville stava facendo l’appello degli imputati:

«de Martainville? »

«Martainville, prego; Martainville senza il de! Sono qui per essere raccorciato [=intendeva dire: perché mi si tagli la testa] e non per essere allungato!

A quella parola franca e coraggiosa, il terribile accusatore pubblico, che sorrideva assai di rado, non poté trattenere un sorriso, poi si consultò brevemente con un giurato, l’ex marchese d’Antonelle, e ordinò che l’arrestato venisse messo in libertà. E lo fece con molto spirito, servendosi a sua volta d’un calembour intraducibile nella lingua italiana:

«Eh bien, qu’on l’élargisse!»

Élargir in francese significa «mettere in libertà» ma anche «allargare», sicché Fouquier-Tinville veniva ad integrare, in certo modo, l’arguta risposta dell’accusato.

Fu così che, in grazia del suo spirito e del desiderio di Fouquier-Tinville di emularlo, Alfonso Diodato Martainville, letterato e pubblicista, ebbe salva la vita. Fatto scrupolosamente storico.

 

23-24. Due aneddoti su Napoleone

Allorché da Maria Luisa d’Austria l’infelice Napoleone ebbe il figlio che orgogliosamente proclamò re di Roma (il futuro duca di Reichstadt), ordinò che in faccia al ponte di Jena fosse eretto un palazzo che doveva chiamarsi «del Re di Roma». Il governo acquistò le case che sorgevano in quel posto, ad eccezione di una, stimata circa 1.000 franchi e di cui era proprietario un povero bottaio, che prese l’occasione per chiederne 10.000. Napoleone ordinò che glieli fossero pagati. Ma quando si venne alla stipula del contratto, il bottaio dichiarò di volerne 30.000 e, più tardi, portò la cifra a 40.000. L’architetto non sapeva a che partito appigliarsi, ma alla fine dovette informare l’imperatore.

«Il mariuolo abusa della mia arrendevolezza», rispose Napoleone, «non essendoci però modo di cavarsela diversamente, pagategli quel che chiede!».

L’architetto tornò dal bottaio e si sentì chiedere, della casupola, la bella cifra di 50.000 franchi.

Quando l’imperatore lo seppe, gridò: «Ebbene, non comprerò la sua baracca; essa resterà lì, dove si trova, come un momento al dovere di rispettare gli accordi e le leggi».

Quando invece, nel 1812 entrò vittorioso in Mosca, fu lui ad essere cieco di superbia. Fece infatti coniare subito una medaglia commemorativa che recava su un lato la sua testa (la propria effige) e sull’altra nientemeno che queste parole: «Il cielo è tuo [=di Dio] – La terra è mia». Proprio allora iniziò il suo declino.

 

  1. L’eroica sincerità del ventiduenne Pietro Mayer

In Tirolo nel 1809 tutti i giovani, e non solo i giovani, erano a fianco di Andreas Hofer, per combattere contro i Francesi, invasori, e difendere il diritto naturale della loro Patria a essere e restare libera e indipendente.

Tra i combattenti volontari, il ventiduenne Pietro Mayer.

Quando i Francesi si resero padroni della regione, anche il Mayer cadde nelle loro mani.

Allora, essendo conosciuto e stimato da tutti quale persona onesta e bravo lavoratore, molti, anche persone autorevoli, s’interposero per salvargli la vita. Tra essi, persino la moglie d’un generale francese. I Francesi gli offrirono, dunque, la possibilità di salvarsi. Sarebbe bastata una sua dichiarazione, per iscritto e a sua discolpa, che non era al corrente della pace conclusa tra l’Austria e la Francia e neppure del divieto di portar armi.

Ma quell’eroico tirolese, resistendo alle lacrime della moglie e dei parenti non volle salvare la vita, perdendo insieme la rettitudine della parola e infrangendo il valore della sincerità e della lealtà verso i compagni e i compatrioti. Rispose, perciò: «La verità mi è più cara della vita!».

Venne quindi fucilato. Era il 1° marzo del 1810. A Bolzano.

 

26-27. Un atto di generosità di Murat e un incontro incredibile

Una volta, essendosi ammutinato un reggimento di guarnigione a Livorno, il maresciallo Gioachino Murat ricevette da Napoleone l’ordine di reprimere la ribellione col massimo rigore: un uomo, ogni dieci, doveva essere fucilato. Invano ufficiali e soldati giurarono di voler morire, piuttosto, in battaglia, alla prima occasione. Murat si manteneva inflessibile; tuttavia, da ultimo, parve commosso e stabilì che solo tre dei maggiori colpevoli sarebbero stati uccisi.

I tre sono portati in prigione. Ma durante la notte, un carceriere li accompagna da Murat che, senza preamboli, chiede: «Se vi facessi dono della vita, diventereste uomini onesti?». «Noi siamo colpevoli», rispose fieramente uno di loro, «e dobbiamo morire». «Io voglio invece che viviate. Domattina farò distribuire al plotone d’esecuzione cartucce a polvere; alla scarica, vi lascerete cadere al suolo; vi porteranno al cimitero; là troverete costumi da marinaio; nascondetevi in una locanda qualsiasi e alla prima occasione imbarcatevi per New Orléans; quanto alle vostre famiglie, me ne assumo io stesso il carico».

Vinti dalla commozione, i tre prigionieri cadono in ginocchio, ma Murat con un cenno della mano ordina loro di rialzarsi e li fa ricondurre in cella. Le cose andarono come organizzato e Napoleone non ne seppe mai nulla.

Sconfitto Napoleone, anche Murat venne fucilato.

I suoi figli, Achille e Luciano, banditi dalla Francia, trovarono rifugio negli Stati Uniti.

Un giorno, mentre erano a caccia, furono sorpresi da una violenta tempesta e chiesero ospitalità al proprietario d’una vicina fattoria, un francese. A tavola il discorso cadde sugli avvenimenti successi in Europa e l’ospite, che aveva militato con Napoleone, non si stancava d’esprimere la sua ammirazione per Murat. I due principi, allora, si fecero riconoscere e l’altro, piangendo, raccontò la sua storia. Era – incredibile a dirsi – uno dei tre soldati graziati da Murat !

 

  1. La carriera fulminea d’un soldato dello czar Nicola I

Durante la guerra turco-russa del 1853-55, il generale Wakinoff riportò una grande vittoria sui Turchi, a Sinope, sulla sponda meridionale del Mar Nero. Incaricò allora un soldato – in quanto a valore, i soldati russi non sono secondi a nessuno – di portare all’imperatore Nicola I una lettera, che annunciava la vittoria stessa.

Il soldato percorse nel minimo di tempo il lunghissimo cammino e si presentò allo czar sfinito e coperto di polvere.

L’imperatore lo interrogò e seppe da lui quale enorme viaggio avesse compiuto in così breve tempo. Commosso, gli fece poi cenno di sedere, dicendo: «Accomodatevi, capitano!».

Poi lesse il dispaccio, nel quale il generale Wakinoff gli dava l’annunzio della vittoria ed esponeva ad un tempo le difficoltà che il messaggero avrebbe dovuto superare. Allora Nicola I guardò un’altra volta il soldato, appena promosso capitano, e vide che, pur stando rigidamente seduto, s’era addormentato, vinto dalla stanchezza. Allora s’accosto a lui, lo scosse e sorridendo gli disse: «Svegliatevi, colonnello!».

A sentire queste cose, ci si sente qualcosa dentro, che sa di commozione!

 

  1. Federico II di Prussia in visita a una scuola

In un certo giorno, di un anno d’imprecisata memoria, sebbene sia fatto realmente successo, il re di Prussia Federico II andò a far visita a una scuola e volle fare un saggio del sapere degli scolari. Prese un’arancia e, presentandola a una fanciulla, le chiese a quale regno naturale appartenesse. La fanciulla rispose, giustamente: «Al regno vegetale».

Allora il re prese una moneta, ripeté la domanda e la fanciulla rispose: «Al regno minerale», il che è giusto. A quel punto il re, che voleva portare la bambina a considerare il caso d’un membro del regno animale, compì un’imprudenza grossolana e non trovò di meglio che chiederle: «E io a quale regno naturale appartengo?». La risposta logica doveva essere: «Al regno animale». Per sua fortuna, la piccola interrogata s’accorse, con bravura, del possibile equivoco e, dopo aver pensato alquanto, rispose: «Vostra Maestà appartiene al regno di Dio».

E non è a dire quanto il re deve essere stato felice a tale risposta.

 

  1. La testardaggine di Luigi Napoleone

A Parigi, verso la metà dell’Ottocento, sul trono c’era l’imperatore Napoleone III, di cui Napoleone I era stato uno zio. Figlio di Napoleone III era Luigi Napoleone. Questi fin dall’infanzia mostrò d’avere un carattere particolarmente testardo: voleva sempre far di testa sua. Quando giocava con i  soldatini o si divertiva a dipingere (la sua grande passione), giovandosi d’una cassetta di pittura che gli avevano regalato, né la madre, né l’istitutrice, né alcun’altra persona riuscivano più a farsi ascoltare. Egli ragionava così: «Non ho bisogno di obbedire; un giorno sarò io l’imperatore e sarò io a comandare».

Ma le cose andarono diversamente. Il 2 settembre 1870 suo padre fu sconfitto nella celebre battaglia di Sedan, venne fatto prigioniero e dovette fuggire in Inghilterra, in esilio, e vi sarebbe morto dopo soli quattro anni.

Lui, il principino imperiale, volle fare il soldato, sempre con il «sogno nel cassetto» di salire un giorno sul trono ch’era stato del padre e del prozio. Quando poi, nel 1887, gli Inglesi iniziarono una guerra in Sud Africa, egli si arruolò e partì volontario. Portò però con sé la cassetta di pittura, sperando d’aver tempo di copiare, in quella parte del mondo, dei bei paesaggi; e, veramente, ne ritrasse alcuni di meravigliosi.

Un giorno, però, mentre era intento a dipingere, fu annunciato l’avvicinarsi delle truppe nemiche. «Altezza», gli disse un ufficiale, «è tempo di lasciare la pittura; il nemico avanza». «Ancora cinque minuti», rispose. Risuonò un secondo ordine: «Subito in ritirata». «Ancora qualche istante», disse anche quella seconda volta. Ed ecco, in un attimo era circondato dai nemici, armati sino ai denti. Assalito da ben diciassette lance, cadde nel suo sangue.

Non era forse prevedibile? Non era abituato a non dar retta a nessuno?

 

  1. Un dialogo tra il principe di Bismarck e lord Russell

Lord John Russell, grande statista inglese, si trovava un giorno nello studio del principe di Bismarck. Il discorso cadde sulla moltitudine di visitatori che continuamente assediavano l’anticamera del «Cancelliere di ferro».

«Come fate a liberarvene?», chiese a questi lord Russell.

«Oh», rispose il principe, «è semplicissimo! Mia moglie sta nella stanza vicina, e quando s’accorge che qualche seccatore mi fa perdere il tempo, subito apre l’uscio e mi chiama con un pretesto.

Bismarck aveva appena pronunziate queste parole quando l’uscio della stanza vicina si schiuse e la principessa si affacciò, dicendo: «Mio caro Otto, ricordati che è ora di prendere quella medicina».

Bismarck e Russell si guardarono e proruppero insieme in una sonora risata. Dopo di ciò, non rimase a lord Russell che di congedarsi, per lasciare che il «caro Otto» prendesse il suo rimedio.

 

  1. San Gerardo Maiella, umile sino in fondo

San Gerardo Maiella era un uomo semplice e servizievole. Divenne frate, ma volle rimanere tale e non essere consacrato sacerdote. Prima di diventarlo, era stato un povero servo e non disdegnò di continuare ad esserlo, disponibile a compiere ogni servigio utile alla comunità. Ora faceva il sagrestano, ora il catechista, ora il portinaio, ora l’ortolano, ora il cuoco, ora l’uomo delle più umili fatiche.

Questo spirito l’aveva fin da quand’era novizio nello studentato di Deliceto. Una volta venne in visita un personaggio «di alta levatura». Il superiore, padre Cafaro, aveva dato l’ordine che, al suo arrivo, tutti i frati e gli studenti gli corressero incontro, a riverirlo. A Gerardo era stato comandato di star attento al primo colpo della campanella, per correre ad aprire la porta. E, infatti, la campanella non aveva ancora cessato di battere i suoi primi colpi, che Gerardo aveva aperto il portone del convento. Ma c’era un ma: quando aveva udito il suono della campanella, Gerardo era in cantina, con il boccale in mano, a spillare il vino per il pranzo. Al primo suono si era slanciato, col turacciolo della botte e il boccale in mano, lasciando la botte aperta, sancta simplicitas!

Ad accorgersene fu il padre superiore, che preferì… rinunciare ad accogliere il gran personaggio nella maniera che gli sarebbe piaciuta, piuttosto che perdere il buon vino della sua cantina; evidentemente aveva altre virtù, al posto della sancta simplicitas!

 

  1. Ivan Turgheniev e il mendicante

Il grande Ivan Turgheniev ha scritto:

« Passeggiavo per la via. Un mendicante, un vecchio cencioso, mi fermò: gli occhi infiammati, lacrimosi, le labbra violacee, le vesti a brandelli, ripugnanti piaghe sulla pelle. Oh, come la miseria aveva laidamente conciato quell’essere infelice! Mi stese una mano, rossa, gonfia, sudicia. Con un gesto mi chiese aiuto. Io mi misi a frugare per tutte le tasche. Non avevo né il portamonete, né l’orologio, né il fazzoletto. Non avevo nulla indosso. E il mendicante se ne stava sempre lì, in attesa. Tendeva la sua mano ed era scosso da un fremito lieve.

« Turbato, confuso, afferrai vigorosamente quella mano lurida e tremante. “Abbia pazienza, fratello, non ho niente, fratello”.

« Il mendicante mi fissò: le sue labbra violacee si dischiusero a un sorriso, e a sua volta strinse le mie mani gelide. “Che importa, fratello”, mormorò, “Grazie lo stesso. Anche questa è un’elemosina, fratello”.

« Compresi che in quell’istante avevo ricevuto io una carità, da quel fratello mio».

 

34-35. Darwin ed Enrico IV e l’amore per la verità

Il grande scienziato Darwin all’abitudine di eseguire scrupolosamente i suoi lavori di studioso, accompagnava un immenso amore per la verità e la precisione nel modo di esprimersi. Fu così che, una sera, conversando in casa sua con alcuni amici, aveva detto che la maggiore impressione di sublimità l’aveva provata su una vetta della Cordigliera delle Ande. Poi si passò ad altri argomenti, finche, essendo molto stanco, lo scienziato si ritirò in camera, mentre i suoi amici restarono in soggiorno a conversare.

Era già trascorsa la mezzanotte, quando lo si vide ricomparire, in pantofole e in veste da camera. Si era alzato per venire ad avvertire che l’impressione maggiore di sublimità l’aveva provata non sulla Cordigliera, ma nelle foreste del Brasile.

In quanto ad amore della verità, si racconta che un giorno il re Enrico IV invitò il suo biografo, Pietro Mathieu, a leggergli alcune pagine della storia a lui dedicata e si stupì che l’andasse dipingendo come un libertino.

«Ma perché», gli disse, «rivelare così i miei difetti?».

Dopo qualche momento di pena vicendevole, aggiunse però: «No, hai ragione tu. Se tu nascondessi le mie debolezze, non saresti creduto nemmeno quando dici le mie virtù; continua a scrivere anche i difetti, perché impari a correggermene!».

 

  1. Le grandi intuizioni di Leone Harmel

A 87 anni, il 26 novembre 1915, a Nizza spirava Leone Harmel, un uomo che godeva dell’amicizia di papa Leone XIII e oggi pochi conoscono. Eppure…

Era stato l’ideatore e creatore d’una comunità operaia ispirava al cristianesimo. Seguendo il motto: «Tutto per l’operaio e per mezzo dell’operaio», in Val-des-Bois aveva piantato officine e dato lavoro a migliaia d’operai, che lo chiamavano il bon père.

A fulcro della comunità aveva voluto ci fosse la famiglia, i cui interessi dovevano esser sempre tutelati. Di qui l’idea d’un salario familiare e la creazione, lungimirante, d’una Cassa di famiglia, con la quale far fronte ai problemi più urgenti delle famiglie numerose. Bella anche l’idea di festeggiare insieme, come comunità, le ricorrenze più importanti delle singole famiglie e di creare scuole a vantaggio di tutti.

La comunità era strutturata per gruppi associati: i bambini, gli adolescenti e giovanissimi, gli operai, le loro figlie e le loro mogli. Ciascuna di queste associazioni era libera e aveva un consiglio e locali di riunione propri. C’era anche un sindacato professionale, con lo scopo di difendere gli interessi economici, industriali e sociali dei propri membri.

Nell’ambito politico Harmel pensava così: «Il regime politico contemporaneo ha origine popolare. I doveri del cittadino sono importantissimi, poiché è dal loro adempimento che dipende la grandezza o la decadenza della Patria. Nostra divisa in questo campo è: Cristo e libertà». Intendeva dire che l’operaio cristiano dev’essere pronto a difendere, con tutti i mezzi legittimi, sia la sua fede, che i diritti e le libertà civici.

 

  1. Pascoli con la camicia sbottonata

Il poeta Giovanni Pascoli, morto a soli 37 anni, sembrava, all’aspetto, un autentico contadino toscano o, tutt’al più, un panciuto e rubicondo fattore. Lo diceva (e se ne compiaceva) lui stesso: «In me non c’è neanche il minimo indizio da cui si possa ragionevolmente dedurre che conosca le lettere dell’alfabeto».

E chi l’avesse incontrato per le strade dell’alta Lucchesia o lo avesse veduto, torno casa, lassù, a Castelvecchio, in giubba di fustagno, colla camicia sbottonata sul petto villoso e con una pipa da un soldo in bocca, lo avrebbe preso per un bifolco qualunque, che, dopo aver governato i buoi e le vacche, se ne andasse per le viottole del suo podere, a dare un’occhiata alle piante.

Una sera d’estate il poeta scendeva, lemme, lemme, con la sorella Maria, verso il ponte di Campìa, recandosi a cena, com’era solito, in una botteguccia dove, a quei tempi, si friggevano certi pesciolini del Serchio che, a sentirseli scricchiolare sotto i denti, erano una vera delizia.

Quella certa sera, mentre il poeta chiacchierava contento con la sorella, e fumava la sua pipa, ecco, su per l’erta il rombo d’un’automobile, che li raggiunge e si ferma. E subito n’esce, ne balza, meglio, un leccatissimo signore che chiede al Pascoli: «Ehi, galantuomo, di dove si passa per salire alla villa del professor ?».

E il pascoli, serio serio, cavandosi rispettosamente il cappellaccio di zucca e la pipetta di tra le labbra carnose: «Si passa di lì, da quella strada a sinistra».

«Grazie, capoccia. E, dite, il professore lo troveremo in casa?». «Ma sicuro che lo trovano! L’ho visto, coi miei occhi, pochi minuti fa, girellare per il campo».

La macchina s’allontana e il poeta, allegro come un ragazzo, se la ride…

Egli era un vero uomo, uno che «sa per istinto»; di lui, parafrasando, si potrebbe dire ciò che pensava Béranger: «Amare è ancora troppo poco, assomiglia troppo da vicino all’esser utili a sé, al dare a sé stessi la possibilità di realizzarsi; bisogna rendersi amabili, far sì che gli altri ci possano amare, allora saremo loro veramente utili».

E farsi amare è anche condividere uno scherzo, una battuta, un piatto di pesciolini fritti, un sorriso, che, come diceva Sterne, aggiunge un filo d’oro alla trama della vita.

 

  1. L’affetto filiale del card. Gotti

Girolamo Maria Gotti era nato a Genova nel 1834, «da umili ma virtuosi genitori». Suo padre, bergamasco, era emigrato a Genova in cerca di lavoro; aveva trovato un impiego tra i camali, ossia gli scaricatori di porto, poi, un po’ alla volta, per l’impegno e le capacità, aveva raggiunto il grado di carovana, ossia capo-squadra.

Girolamo fece i primi studi al collegio dei Gesuiti, poi, a sedici anni entrò nell’Ordine dei Carmelitani Scalzi. Dopo l’ordinazione sacerdotale, si dedicò all’insegnamento di Lettere e Filosofia quindi, per sette anni, delle scienze matematiche. Nel contempo insegnava alla Regia Scuola Navale. Nel 1869 il Padre generale dei Carmelitani, di passaggio a Genova, per recarsi a Roma al concilio, lo volle con sé. Da allora fu tutto un salire nella scala gerarchica: nel 1881 divenne Padre generale e visitò le comunità carmelitane in Austria, Baviera, Belgio, Francia, Inghilterra, Irlanda, Malta e persino le missioni in Siria. Nel 1892 il papa Leone XIII lo elesse vescovo e inviò suo rappresentante in Brasile. Nel 1895 fu promosso cardinale. Successivamente divenne prefetto della Congregazione dei vescovi e di quella per le missioni o, come allora si diceva, di propaganda fide.

Eppure, il card. Gotti fu sempre affettuosissimo verso i genitori. Li considerava i suoi più grandi maestri di vita. Al ricordo degli anni della sua stentata fanciullezza e delle fatiche del padre, si commuoveva; quando poi parlava di sua madre, si toglieva dal capo lo zucchetto, ossia il berretto cardinalizio. Un gesto di grande bellezza e nobiltà d’animo!

Il card. Gotti è morto nel 1916.

 

  1. Gli scherzi del cerimoniale

A Berlino cent’anni fa il protocollo di corte prevedeva che, al termine dei ricevimenti ufficiali, quando il rappresentante d’una nazione amica – sovrano o ambasciatore – lasciava la reggia, avesse ad essere salutato col suono dell’inno della sua nazione e il suono si prolungasse fino a quando l’illustre ospite era perduto di vista. A Londra, d’altra parte, sarebbe stata (ed è ancora) somma sconvenienza, per un personaggio ufficiale, muoversi o restare col capo coperto mentre viene suonato l’inno britannico, il «God save the king».

Ebbene, ecco quel che successe a un diplomatico inglese nel lontano 1907. Sir Frank Lascelles, ambasciatore del Regno Unito a Berlino, in occasione dell’onomastico (o compleanno) del sovrano tedesco, era stato invitato a pranzo, a corte, dall’imperatore.

Al termine, sul punto di lasciar la reggia, salì in carrozza e la musica della Guardia intonò – come aveva ricevuto ordine – il «God save the king». Allora la carrozza si fermò e sir Lascelles si rizzò in piedi, si tolse di capo la tuba e rimase così, rigido, fino al termine dell’inno. A quel punto la carrozza accennò a mettersi in moto e, subito, i musicanti ripresero a soffiare nei loro strumenti, per accompagnare l’ospite con l’inno. Immediatamente l’ambasciatore dispose una nuova fermata della carrozza e riascoltò l’inno, fermo e in piedi.

Il curioso e imbarazzante inghippo del cerimoniale si ripeté ben quattro volte, con crescente malumore dei poveri soldati, costretti a sfiatarsi fra la sorpresa dei presenti, che quasi tutti ignoravano il motivo di quelle ripetute fermate; solo sir Lascelles, da fine diplomatico, non tradiva alcun fastidio.

Lo «scherzo del cerimoniale» si concluse quando un ciambellano di corte, resosi conto di quanto stava succedendo, intervenne a spiegare l’equivoco e far tacere la banda musicale. Allora, finalmente, l’ambasciatore di Sua Maestà Britannica si sentì autorizzato a lasciare il castello imperiale.

 

  1. Le donne tranviere di Milano

A Milano nel 1916 la società «Edison», seguendo l’esempio di ciò che s’era fatto a Torino, Roma e in altre città, decise d’assumere parecchie centinaia di donne come bigliettaie, allora dette bigliettarie. Fu una novità sociale strepitosa, che un foglio a stampa d’allora descrisse e giustificò così: «Una delle indirette conseguenze della spaventosa conflagrazione europea, è stata una continua, necessaria estensione dell’attività femminile: non solo là dove prima usava esercitarsi, ma, si può dire, in ogni specie di lavoro. E così dalle sale d’ufficio a quelle di vendita, dai campi alle officine, la donna è venuta man mano a portare dovunque il contributo delle sue facoltà fisiche e intellettuali, sostituendosi all’uomo, che la Patria chiama ad altri più imperiosi e sacrosanti doveri». Insomma, un inserimento, sì, nelle attività lavorative, ma quelle meno imperiose e sacrosante, come erano considerate e involontariamente definite quelle manuali!

L’esperimento ebbe un buon successo, riuscì «felicissimo», perché «le donne disimpegnarono il loro dovere con zelo e cortesia veramente encomiabili».

«Se la guerra dovesse continuare», si scriveva con incredibile ingenuità, «si penserebbe ad assumere un certo numero di donne come manovratrici».

Le bigliettarie dovevano indossare una specie di soprabito, lungo fino alle caviglia, grigio d’estate, che sembrava «semplice ma elegante» e a noi sembra piuttosto l’abito d’una suora. In testa portavano una specie di berretto sportivo, con una piccola visiera.

 

  1. Leopoldo II del Belgio e la focaccia

Un giorno Leopoldo II, re del Belgio, uscendo dal palazzo reale di Bruxelles in abito borghese, sorprese la sentinella che se ne stava tranquilla con una focaccia in mano e la bocca già piena.

«Di dove sei, amico?», domandò il sovrano.

«Ma guarda quanto tu sei curioso!», rispose il soldato; «E tu chi sei? Sei forse un militare?»

«Sì»

«Della riserva?»

«No, pensionato. E indovina un po’ di che grado…».

«Maggiore?»

«No»

«Colonnello?»

«No»

«Generale, allora»

«Neppure»

«Sei dunque il re?»

«Precisamente»

«Quand’è così», disse allora il soldato, «tienimi un momento questa focaccia, che ti possa presentare le armi!».

Cose, come s’intuisce, che potevano succedere solo quanto non c’era né internet, né la televisione di massa; ad ogni modo, la battuta finale del soldato, che immaginava fosse tutto uno scherzo, è simpatica, come tutta la scena che s’era venuta a creare.

 

  1. D’Annunzio e “l’ora di Tiziano”

Lo scrittore francese Henry Bordeaux scrisse un giorno un articolo su «Le Figaro» chiedendosi in che modo il D’Annunzio, noto per la precisione nell’ordinare le sue giornate, trascorresse il momento in cui cade la sera e che una volta, a Venezia, aveva chiamato “l’ora di Tiziano”.

Quualche tempo dopo D’Annunzio si trovava a Parigi ed espresse il desiderio di sentir suonare gli organi della cattedrale e che ciò fosse alle sei di sera. Fu accontentato e Bordeaux fu uno dei pochi a cui fu concesso di assistere a quell’insolito concerto.

Infine, D’Annunzio gli disse: «La sera è l’ora degli organi».

Due definizioni, una più bella dell’altra!

 

  1. I fagiolini alla Marconi

Il proprietario d’un ristorante frequentato da Marconi desiderava possedere un autografo del celebre inventore. Sapeva che l’impresa sarebbe stata difficile, ma le difficoltà, è noto, aguzzano l’ingegno.

Una sera, entrando, Marconi si vide presentare un menu, in cui figuravano i «fagiolini verdi alla Marconi». Sorpreso, ne chiese spiegazione al cameriere, ma questi non ne sapeva nulla e, allora, fece chiamare il proprietario: «Vorrebbe dirmi perché li ha battezzati in tal modo ?».

«Oh, ma è chiaro, signore», rispose l’interrogato, «sono fagioli senza filo». Il che significava: «liberati da quelle fibre resistenti» che li rendono meno delicati al palato.

Marconi sorrise e, colpito dall’ingegnosità dell’espediente, gli fece dono del sospirato autografo.

 

  1. Henry Ford e un meccanico vagabondo

Un giorno Henry Ford, il grande industriale dell’automobile, mentre viaggiava per una strada poco frequentata si trovò a un tratto vittima di panne. Il caso volle che passasse di lì, in quel momento, un vagabondo che ai suoi bei tempi era stato meccanico. Egli, dopo pochi minuti, riuscì a rimettere in moto la vettura.

Ford, pieno di riconoscenza verso lo sconosciuto soccorritore, volle compensare i servizi e gli domandò: «Cosa preferite? Tremila dollari contanti e sonanti o una rendita vitalizia di centocinquanta dollari al mese?».

Lo sconosciuto si decise per i tremila dollari in contanti.

«Voi avete fatto male a scegliere così», replicò Ford; «i tremila dollari sfumeranno in pochi mesi, mentre la piccola rendita vi avrebbe servito per il resto della vita».

E l’altro, sfacciatamente: «E chi Le dice che Lei, con la sua fortuna negli affari, non debba morire tra un mese?».

 

  1. Il sobrio Ferruccio Parri

Ferruccio Parri (1890-1981), primo presidente del Consiglio dei ministri, alla guida d’un governo d’unità nazionale, in un’Italia ridotta in macerie dalla grande guerra, era (oh, rarità nel mondo della politica!) un uomo amante della vita sobria.

Indro Montanelli racconta che, anche da presidente del Consiglio, dormiva su una branda da campo, nella stanza vicina al suo studio; per i pasti si accontentava di panini, per lo più con qualche fetta di salame; non voleva scorte e tanto meno auto blu di rappresentanza. Ogni sera andava a comperarsi i francobolli per la corrispondenza privata. Anche nel 1963, quando fu nominato senatore a vita, viaggiava di notte, per risparmiare i soldi dell’albergo.

 

  1. Il bonario censore di Dante (e certi liturgisti)

Il portinaio d’un seminario dell’Italia centrale, di circa cent’anni fa, tale Arnoldo Francia, portato a verseggiare, era giunto a credersi un grande poeta e la fama di questa convinzione, tutta sua, s’era diffusa ben oltre le porte dell’istituto.

Si trattava, ad esempio, di chiamare un seminarista, al quale un parente o un amico faceva visita. Allora, stando nel cortile, egli inventava e gridava verso i corridoi dei piani superiori un suo veloce distico, quale poteva essere: «Ascolti, buon Ferruccio Calzolari: / scenda in portineria, e siamo pari!».

Il colmo era quando parlava della Divina Commedia, di cui sul tavolo della guardiola teneva un’edizione economica. A volte diceva: «E pensare che la Divina Commedia è un libro fatto tutto e solo di poesia!», oppure: «Oh, la rima, poi, la vien sempre, sempre!» (si vede che l’aveva controllata, temendo di trovare Dante in fallo…). Ma la sua osservazione più bella era: «E qualche volta c’è anche il senso!»; ed era semplicemente il segno ch’aveva capiva il significato d’una terzina.

Questa storia, di cui i superiori di quel seminario si divertivano tanto nel raccontarla e nel deridere il povero portinaio, mi fa pensare a quei tali che, senza accorgersi d’un eguale ridicolo, hanno buttato via i grandi poemi liturgici della Tradizione, per far posto al loro verseggiare liturgico malriuscito (e guai ridere loro addosso!).

 

47-49. Successo nell’Agordino nel 1946

Nel 1946, uno degli animatori della Democrazia Cristiana in Agordino era il maestro Edoardo Luciani, fratello del futuro papa. Anch’egli amava e sapeva parlare in maniera semplice, spesso in dialetto. A Vallada, ad esempio, il 26 maggio alla gente che usciva dalla messa, disse, per contrastare i comunisti: «No i se segna gnanca; anca noi se pudéva mete ‘l Genio di Rochi, che ‘l é conosù… anca nella val de là del canal, perché no l’é stala dove no’l sia entrà; perché voi me capide, bisogna discenda molto in basso, qua».

Dopo la vittoria della Democrazia cristiana, le persone, abituate al fascismo, avevano strani dubbi. Don Ernesto Ampezzan racconta che un giorno, seduto su un prato a leggere, sentì una donna chiedere a un’altra: «Ma adesso, che ha vinto la democrazia, si farà la dittatura?» e un uomo rispondere incerto: «Mi pare di no, perché altri sono all’opposizione».

Per festeggiare la proclamazione della repubblica, dopo il sic est di De Gasperi, il municipio di Vallada espose la bandiera, sì, ma… con lo stemma dei Savoia; altri Comuni, con più buon senso, visto che non potevano far diversamente preferirono non esporre alcuna bandiera.

 

  1. L’espediente del vecchio medico calabrese

Un vecchio medico, stabilita la sua dimora in un villaggio della Calabria, non essendo riuscito a vincere la diffidenza degli abitanti e trovandosi così privo di clienti, ricorse ad uno strano espediente. Un giorno di festa, quand’erano tutti sulla piazza, dopo la Messa, fece loro questo discorso: «Poiché sembra che voi dubitiate del mio sapere come medico, voglio mostrarvi fino a qual punto esso giunge. I miei colleghi si accontentano di curare e guarire i vivi; io voglio fare di più e richiamare in vita i morti. Venite domenica al cimitero e vedrete!».

Queste parole, come si comprende, non mancarono di produrre effetto e la notizia si diffuse di bocca in bocca; quindi, il giorno stabilito, tutta la popolazione del villaggio e delle circostanti campagne si affollò al cimitero, per assistere al meraviglioso spettacolo promessole.

Il medico cominciò a rivolgersi ai figli d’un fittavolo morto pochi mesi prima, lasciando una bella sostanza terriera, e chiese loro se desideravano veder tornare in vita il loro padre. Gli eredi ragionarono un po’ tra sé e quindi, fra il silenzio generale, risposero di no. Dissero, per scusarsi, che ormai s’erano rassegnati al gran vuoto lasciato dal defunto, che ciascuno aveva introdotto nel proprio metodo di vita delle differenze e, infine, che sarebbe stato troppo grande il dolore di vederlo morire un’altra volta.

Il medico fece quindi la domanda a una vedova, che la morte del marito dieci mesi prima sembrava aver tramortito dal dolore; ma anch’essa rispose di no, giacché, finito il periodo di lutto, pensava d’avere l’intimo dovere, non per sé ma per i suoi familiari, di passare a seconde nozze.

Venne poi la volta del nipote d’uno zio benestante, per la cui morte egli aveva versato, sotto gli occhi di tutti, abbondanti lacrime. Neppure costui mostrò desiderio di rivederlo, spiegando che il cordoglio da lui sofferto in quell’occasione non avrebbe potuto sopportarlo un’altra volta senza compromettere gravemente la sua salute.

In breve, tutti, chi per una ragione e chi per l’altra, rinunciarono a veder tornare in vita i loro cari defunti; ma, intanto, l’accorto medico era riuscito nel suo intento, di destare la loro ammirazione e far risorgere… il suo portafoglio!

 

  1. Il bambino e la ciotola infranta

Si era circa cent’anni fa, in una famiglia delle campagne d’Italia.

In un casolare, un vecchio nonno, gottoso sordastro e quasi cieco, abitava con il figlio, la nuora e un nipotino. Il figlio per ogni poco lo rimproverava, la nuora lo strapazzava. Il nipotino, di cinque anni, sarebbe stato volentieri col nonno, ma i genitori glielo impedivano, temendo che gli comunicasse chissà quali malattie.

Quand’erano a tavola, il nonno si sbrodolava un poco, mangiando, perché le sue mani, che avevano sempre lavorato, gli tremavano, lievemente. Nauseata di quelle difficoltà, un giorno la nuora gl’intimò d’allontanarsi dalla tavola e d’andare sulla panca vicino al focolare, con la sua ciotola di minestra in mano. Sia stato per il tremore delle mani, sia stato per l’avvilimento, la ciotola gli sfuggì di mano e rovinò in cocci, la minestra si sparse sul pavimento. La nuora cominciò a dare in escandescenze, poi, presa una nuova ciotola, di legno (come quella che usavano per gli animali), e riempita di minestra, la diede sgarbatamente al vecchio, che, frattanto, s’era messo a piangere, d’un lamento penoso.

Il bambino osservava la scena; s’alzò da tavola e andò ad accarezzare il nonno. Quindi, serio, s’accoccolò per terra e cominciò a raccogliere e ricongiungere i pezzi della ciotola d’argilla, infranta.

«Che fai?», gli chiesero meravigliati babbo e mamma.

«Che faccio?», rispose; «Ricompongo la ciotola e, quando sarò grande e voi sarete anziani la darò a voi, per vedere se la terrete in mano!».

Sembra una leggenda, mentre è un fatto storico.

 

  1. Il pastorello ritenuto selvaggio

Alberto Perlenghini ha scritto la storia, vera, d’un pastorello a suo dire selvatico. Dice: «Vive un pastore, sulla Montagna di ghiaccio, che dall’alba al tramonto sorride. La gente della valle lo fugge quando, attratto dalla fame reale, scende a fare provviste o a scambiare la lana delle sue pecore con il grano delle pianure. Dicono che sia tocco. Una volta, ch’era salito sulla Montagna, da solo, l’ho udito parlare ad alta voce. Parlava ai fiori, alle pecorelle, alle nuvole bianche e all’aria del primo mattino.

« – Beato sei tu, o fiore, che dal seme nasci e procrei gli altri semi – diceva, ed ancora – Beato sei tu, astro, che sorgi la mattina e te ne vai la notte. E beato sei tu, o vento, che vai, vai e poi ritorni. Beata sei tu, pecorella, che nasci dal ventre di tua madre e ti addormenti in quello della terra. Beata sei tu, primavera, che preannunci la state, e beato sei tu, autunno, che apporti l’inverno…

« Così parlava quel pastore, ed io lo seguii nella sua grotta. Egli entrò senza scorgermi; si accomodò il giaciglio fatto con lana d’animali. Sopra il giaciglio stava sospeso un robusto giunco, piegato a cerchio. Un cerchio insomma. Il pastore si inginocchiò davanti al simulacro e mormorò: Dio! ».

A questo punto il Perlenghini fa un commento così spregiativo, che non è dignitoso riferirlo. Magari esistessero molte persone semplici e profonde come quel povero pastorello!

 

  1. La scelta della professione da indicare al figlio

Un uomo d’affari americano di una sessantina d’anni fa, e di cui non ricordo il nome, un giorno, per cercare di capire le inclinazioni del figlio, per poterlo indirizzare meglio nella scelta della professione, lo fece stare in una camera con una mela, un biglietto da un dollaro e una Bibbia, all’apparenza messi là per caso.

«Se lo troverò a leggere la Bibbia, gli suggerirò di diventare un uomo di Chiesa e magari sarà un bravo Pastore evangelico», pensava; «se lo troverò a mangiare la mela, lo indirizzerò verso le attività manuali e forse diventerà un bravo imprenditore agricolo; se, infine, lo troverò ad esaminare la cartamoneta, avrò buone speranze di invogliarlo ad essere un finanziere o un banchiere o, almeno, un bancario».

Quando, dopo un po’, quel padre tornò nella stanza, trovò il ragazzo che s’era messo il dollaro in tasca e, sedutosi in un cantuccio sopra la Bibbia, si stava mangiando tranquillamente la mela.

Allora decise di farne… un politico! Così l’ho letta, ma non so se è del tutto vera o inventata; ma, anche se è inventata…

 

  1. La varietà linguistica d’Italia La poesia «Confessarsi a viso aperto», del bolognese don Giuliano Camerini, dice:

Um piès vgnir a cunfserum qué, da lo’!

Vo’ am cgnusì! Basta ch’a degga:

« Jen qui (tot quant) del mese che passò;

prezìsi a ch’l’etra vôlta! ». Che fadegga,

s’un tuchess d’arcunter la filastrocca

dal mi busì, quand’a vôi vgnir in Cisa!

La Maduneina all’anima che invoca

un pêr ch’l’ava da dir: « Il Cielo avvisa

in tanti modi, se non sei cristiano! ».

Al mi pritén, imploro assoluzione;

boia d’un mondo, se ho vissuto invano!

« Cunfsem a grògn; e brisa qué, inznucè! »

« Gì so’! Ad chi sarél (è un’obiezione)

al grogn? L’è al mì? Adess si scapuzè!

Non capisco un accidenti e devo ricorrere alla traduzione: «Mi piace venirmi a confessare da lei. Voi mi conoscete. Basta che io dica “Sono quelli [=i peccati] del mese passato; precisi all’altra volta!”. Che fatica (sarebbe), se mi toccasse raccontare la filastrocca delle mie bugie, quando voglio venire in Chiesa! La Madonnina mi par che dica all’anima che invoca: “Il Cielo avvisa in tanti modi, se non sei cristiano!”. Pretino mio, imploro assoluzione. Mondo crudele, se ho vissuto scioccamente. “Mi confessi faccia a faccia [=grugno a grugno], e non alla grata! “Dite su! Di chi sarebbe (è un’obiezione) [=divertente obiezione del confessore] il grugno? La mia? Adesso siete inciampato [=caduto in errore]».

La disunità e, se non piace, varietà linguistica d’Italia potrebbe però diventare una ricchezza comune.

 

55-57. I linguaggi astrusi o maliziosetti

Alcuni – come si sa – vorrebbero darla da bere d’esser maestri di bel dire e bello scrivere, e non s’accorgono ch’ottengono solo di far pena o, per ben che vada, far ridere. Così quel giovane latifondista emiliano che, dopo aver gironzolato un mezzo pomeriggio a cavallo fra le sue proprietà, s’imbatté per caso in un contadino lungo le capezzagne (cavedagne) e volle fare il raffinato, col chiedergli: «Appròperati, o zappatore! Appropìnquati, o villico, a raccorciar li perpendicoli, che, per lo lungo equitar, si fêr prolissi». E quel colono capì forse meglio di dover rassettar le staffe, rallentate dal galoppo?

A volte, il popolo, tanto criticato dai sapientoni, sa trovare, con facilità, frasi e motti pieni di saggezza e di buon spirito, come questi, dell’Emilia Romagna: «Vesti un ciocco, pare un fiocco»; «Col tempo e la paglia si matura la sorba… e la canaglia»; «La morte delle pecore è la vita dei cani». E, sul cornicione d’una bella dimora tra bolognese e pistoiese, il proprietario ha fatto scrivere con autoironia: «Ambizion disegnò; capriccio fece; architetti, tirate di lungo» («girate al largo»)!

Più caratteristico il burlesco appello che, stando a quanto racconta un venerando monsignore in vena di sincerità, si trovò a fare al suo padrone la domestica d’un sacerdote di campagna. Egli l’aveva addottrinata in un linguaggio da iniziati, in un gergo tra loro segreto: doveva chiamare lui Canonico, il gatto Ruffillaffero, il fuoco l’allegrezza, l’acqua l’abbondanza e il letto riposàulo. Vuole lo scherzo linguistico ch’un ben giorno la fantesca, allarmata, gridasse al sacerdote: «Scendi, Canonico, dal riposàulo tuo, vien qui vien nella tua stanza! C’è Ruffillattero con l’allegrezza sotto la coda; se non corri con l’abbondanza, brucia il Canonico e tutta la mescolanza», dove mescolanza stava a significare «gli abitanti della casa»; ma è evidente il doppio senso della storiella.

 

  1. La scomparsa del corsivo

Fin dai primi del Novecento, gli scolari americani imparano a scrivere in stampatello e solo dalla terza elementare cominciano a impratichirsi con il corsivo. Un’indagine ha rivelato che l’88 per cento dei maestri statunitensi si sente impreparato a insegnare il cursive, mentre l’85 per cento degli studenti universitari non lo usa mai.

Oggi le linee guida per l’istruzione, adottate da 45 Stati americani su 50, prevedono d’insegnare a digitare al computer e usare software per la scrittura, ma del corsivo nemmeno parlano. «E’ l’inizio della fine», commenta lo storico Steve Graham; «Non è solo una questione estetica: è proprio l’atto di scrivere a mano che rischia di sparire. Nelle aule moderne la penna sta diventando obsoleta come il vecchio pennino». Sono strumenti ottocenteschi nel mondo del Duemila.

 

  1. I vocaboli nati dal cuore

Il cuore, sede dei sentimenti più puri e gentili (quand’è moralmente sano, onesto e retto), ha arricchito, come un buon padre di famiglia, la prosapia linguistica della favella italica d’una piccola quanto vivacissima schiera di marmocchi, ai quali or l’uno or l’altro degli umani si rivolge, per averne un sussidio, un aiuto o un semplice servigio.

Da prima, ecco venire la concordia, generata nell’azzurro del cielo superiore e il cui sorriso bonario pone in fuga la sua perenne nemica, la discordia.

Poi viene, tutta graziosa in viso e con le mani pronte a offrire minuscoli ma simpatici doni, la cordialità.

La segue, a passi lenti, con la fronte china al suolo e lo sguardo pensoso, l’accoramento, che, con la destra stretta al petto, sembra voler comprimere, se mai gli fosse possibile, il dolore che lo strugge.

Gli vien dietro, pietoso e spesso mesto, il cordoglio, che cerca di sollevare lo zaino carico di sassi delle persone amiche e persino di quelle lontane, i cui gemiti gli giungano, in qualche modo, all’orecchio.

Al cordoglio s’affianca, quando non è costretta a volgersi altrove, la misericordia, che i sofferenti invocano, riconoscono e sottovoce definiscono quale loro più umile sì ma quanto mai preziosa amica ed angelo consolatore.

C’è poi la ricordanza, pronta ad ingentilire con il suo nome solenne, che sa di tempo antico, la percezione del freddo, ch’avvolge nel suo manto sia le più gloriose che le più tristi vicende dell’ieri, ch’è stato e mai più ritornerà.

E mentre essa, assorta nei suoi pensieri che non han fine, si cala sugli occhi il fazzoletto nero, gagliardo e a petto nudo avanza e chiude la fila un ragazzino di nome coraggio, che, generoso garzone della città umana, non ignaro del pericolo, l’affronta, ora in difesa della giustizia, ora di qualche suo segreto piacere. E il cuore della vita si affida alle sue mani, come fanno la madre e il padre, che stringono nella loro la manina dell’ultimo figlio, quello che, per certi versi, è sempre il loro prediletto.

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