RATZINGER, Senza verità la politica è culto dei demoni  


 

 

 

 

 

 

Nell’autunno del 1962 Joseph Ratzinger tenne una conferenza alla settimana della «Salzburger Hochschule». Un breve estratto ne venne pubblicato nella rivista dei laureati cattolici «Der katholische Gedanke» (19, 1963, pp. 1-9) e una parte più vasta era stata già stampata in precedenza in «Studium Generale» (14, 1961, pp. 664-682). I due articoli vennero poi rielaborati nel volume «Die Einheit der Nationen» (1971), tradotto in Italia nel 1973 e ora riedito: L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa (Brescia, Ed. Morcelliana, 2009, pp. 120). Qui pubblichiamo uno stralcio dell’ultimo capitolo e la recensione del libro scritta da uno dei maggiori studiosi di patristica e di storia del cristianesimo. Il testo di Ratzinger è tratto da:  http://papabenedettoxvitesti.blogspot.it/2011/01/estratto-della-conferenza-tenuta-da.html ; la recensione di Simonetti da: http://paparatzinger4-blograffaella.blogspot.it/2011/01/lunita-delle-nazioni-una-visione-dei.html (recensione di Simonetti); entrambi i testi sono © L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2011.

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[Testo di Ratzinger]

Come presso Origene, anche presso Agostino il punto di aggancio per la teologia della realtà politica risulta da una necessità della polemica. La caduta di Roma nell’anno 410 per opera di Alarico aveva chiamato in campo di nuovo la reazione pagana: dove sono mai le tombe degli Apostoli? si gridava. Essi manifestamente non erano stati in grado di difendere Roma, la città che era rimasta invitta finché si era affidata alla tutela dei suoi dèi patri. La sconfitta di Roma dimostrò con evidenza palmare che il Dio creatore, che la fede cristiana adorava, non si prendeva cura delle vicende politiche; questo Dio poteva essere competente per la beatitudine dell’uomo nell’aldilà; che non fosse competente per l’ambito della realtà politica, l’avevano appena mostrato efficacemente gli eventi.

La politica aveva manifestamente la propria struttura di leggi, che non concerneva il Dio sommo, doveva quindi avere anche la propria religione politica. Ciò cui la massa aspirava, piuttosto per una sensibilità generale, voglio dire che, accanto alla religione elevata si dovesse dare anche una religione delle cose terrene, e specialmente di quelle politiche, era cosa che si poteva motivare pure più profondamente ancora partendo dalle convinzioni filosofiche dell’antichità.

Bastava solo ricordarsi dello assioma del pensiero platonico formulato da Apuleio: “Tra Dio e l’uomo non v’è nessuna possibilità di contatto”. Il platonismo era convinto nel senso più profondo della distanza infinita tra Dio e mondo, tra spirito e materia; che Dio si occupasse direttamente delle cose del mondo, doveva apparirgli del tutto impossibile. Il servizio divino per il mondo era curato da esseri intermedi, da forze di natura diversa, a cui ci si doveva attenere, quando si trattava delle cose di questo mondo.

In questa accentuazione eccessiva della trascendenza di Dio, che significava segregarlo dal mondo, escluderlo dai concreti processi di vita d’esso, Agostino scorgeva a ragione il nucleo vero e proprio della resistenza contro la rivendicazione di totalità da parte della fede cristiana, che non poteva mai tollerare un’emarginazione della realtà politica dall’ordine dell’unico Dio.

Alla reazione pagana che tendeva a una restaurazione del rango religioso della pòlis e in tal modo a relegare la religione cristiana dell’aldilà nell’ambito puramente privato, egli contrappose anzitutto due precisazioni fondamentali.

La religione politica non ha alcuna verità. Essa poggia su una canonizzazione della consuetudine contro la verità. Questa rinuncia alla verità, anzi lo stare contro la verità per amore della consuetudine, è stata persino ammessa apertamente dai rappresentanti della religione romana – Scevola, Varrone, Seneca. Ci si assoggetta a pagare la tradizione con quanto si oppone alla verità. Il riguardo alla pòlis e al suo bene giustifica l’attentato contro la verità. Ciò vuol dire: il bene dello Stato, che si crede legato al persistere e sopravvivere delle sue antiche forme, viene posto al di sopra del valore della verità.

Qui Agostino vede scoppiare in tutta la sua asprezza il contrasto vero e proprio: secondo la concezione romana la religione è una istituzione dello Stato, quindi una sua funzione, e come tale subordinata a esso.

Non è un assoluto il quale sia indipendente dagli interessi dei gruppi che la rappresentano, ma è un valore strumentale rispetto allo “Stato” assoluto. Secondo la concezione cristiana, per contro, nella religione non si tratta di consuetudine ma di verità, che è assoluta, che quindi non viene istituita dallo Stato, ma ha istituito per se stessa una nuova comunità, la qua- le abbraccia tutti quanti vivono della verità di Dio. Partendo di qui, Agostino ha concepito la fede cristiana come liberazione: liberazione per la verità dalla costrizione della consuetudine.

La religione politica dei Romani non ha alcuna verità, ma al di sopra di essa esiste una verità, e tale verità è che l’asservimento dell’uomo a consuetudini ostili alla verità lo pone in balìa delle potenze antidivine, che la fede cristiana nomina demoni. Perciò il servizio agli idoli ora non è, invero, solo uno stolto affaccendarsi senza oggetto, ma, consegnando l’uomo in balìa della negazione della verità, diviene servigio ai demoni: dietro gli dèi irreali sta il potere sommamente reale del demone e dietro la schiavitù alla consuetudine v’è il servaggio agli ordini degli spiriti malvagi. In ciò sta la vera profondità a cui scende la liberazione cristiana e la libertà conquistata in essa: liberando dalla consuetudine affranca da un potere, che l’uomo ha egli stesso dapprima creato, ma che di gran lunga si è levato al di sopra del suo capo e ora è signore su di lui; è divenuto un potere oggettivo, indipendente da lui, breccia d’invasione da parte della potenza del male come tale, che lo sopraffà, cioè dei “demoni”.

La liberazione dalla consuetudine per attingere la verità è emancipazione dalla potestà dei demoni che stanno dietro la consuetudine. In ciò il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come “redenzione”, cioè liberazione: elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l’unico universale servizio alla verità, che è libertà. In ciò, il processo di pensiero di Agostino s’incontra con quello di Origene.

Come questi aveva inteso l’assolutezza religiosa dell’elemento nazionale quale opera degli angeli demoniaci delle genti e l’unità sovranazionale dei cristiani come liberazione dalla prigionia contro il fattore etnico, così anche Agostino riporta la realtà politica nel senso antico, cioè la divinizzazione della pòlis, alla categoria del demoniaco e nel cristianesimo vede il superamento del potere demoniaco della politica, che aveva oppresso la verità.

Anche per lui gli dèi dei pagani non sono vuote illusioni, ma la maschera fantastica, dietro la quale si celano potestà e dominazioni, che precludono all’uomo l’accesso ai valori assoluti, rinserrandolo nel relativo. E anch’egli nell’elemento politico scorge il dominio vero e proprio di queste potenze. È vero che Agostino ha riconosciuto il suo valore di verità all’idea di Evemero che tutti gli dèi siano stati in origine una volta uomini, cioè che ogni religione (dei pagani) poggi su una iperbolizzazione di sé da parte dell’uomo, ma ha visto al tempo stesso che l’enigma delle religioni pagane, con questa ammissione, non è affatto risolto. Le potenze, che apparentemente l’uomo fa scaturire e proietta da se stesso, presto si dimostrano oggettive ipostasi di potere, “demoni”, che esercitano su di lui una signoria sommamente reale. Da esse può liberare solo Colui che ha potere su tutte le potestà: Dio medesimo.

Se qui, a conclusione, ci chiediamo quale sia la risultanza complessiva dell’indagine, dobbiamo constatare che anche Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fattosi cristiano. La sua civitas Dei non è una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un’entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro. Quanto sia precaria la causa di un cristiano, glielo aveva mostrato l’anno 410, in cui veramente non erano stati solo i pagani a invocare gli antichi dèi di Roma. Così per lui lo Stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase “Stato terreno” e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse. Certo, la convivenza delle due comunità era divenuta più pacifica di quanto fosse ai tempi di Origene; Agostino non parlò più della cospirazione contro lo Stato “scitico”; ma ritenne giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero servizio in Babilonia come funzionari, anzi come imperatori. Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest’età del mondo, da desiderare un rinnovamento dell’Impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un’entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana, ma lascia che esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio relativo ordinamento.

In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi in modo consapevole legale, rimane, in un senso ultimo, “rivoluzionario”, poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all’unico Dio assoluto e all’unico mediatore tra Dio e l’uomo: Gesù Cristo.

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 La rivoluzione che ribaltò il concetto di potere [di Manlio Simonetti]

Nell’introduzione a questo petit livre, il curatore Giovanni Maria Vian ne rileva il carattere pionieristico all’epoca della sua composizione, anni Sessanta del secolo scorso, quando le fortune della cosiddetta teologia politica erano ancora agli albori. In effetti, anche se la prima edizione del libro si ebbe nel 1973, esso rielaborava due precedenti studi, rimontanti agli anni 1961 e 1963.
L’argomento, l’unità delle nazioni, anche se spazia sulla riflessione pagana e cristiana in senso generale, è centrato su due autori, Origene e Agostino: e se la presenza di Agostino è più che scontata, dato che la sua fortuna non ha mai subìto eclissi dal suo al nostro tempo, va invece debitamente rilevata la centralità riservata, dal Ratzinger professore di fresca nomina all’università di Bonn, filosofo ma anche all’occorrenza filologo, a Origene, che con Agostino condivide il vanto di massimo rappresentante della riflessione cristiana in età antica, ma di cui fortuna e memoria erano state di fatto affossate a causa sia delle ripetute condanne, di cui quello fu fatto oggetto tra il III e il VI secolo, sia di certi aspetti del suo pensiero che si collocavano agli antipodi di quello di Lutero e di Calvino, per non dire di Agostino stesso.

Solo dopo la seconda guerra mondiale il significato centrale della riflessione di Origene in ambito patristico è stato rivalutato da studiosi francesi e poi anche italiani, mentre in Germania, nonostante l’avveniristica monografia di Völker, pubblicata nel 1931, persistevano antiche e forti remore, solo con lenta gradualità venute meno.

In questo contesto la presa di posizione di Ratzinger andava per certo contro corrente, come anche per l’importanza accordata alla riflessione gnostica, senza dubbio sopravvalutata sulla traccia dell’allora imperante pangnosticismo di Hans Jonas, ma che anticipava gli esiti della ricerca di Antonio Orbe circa la comprensione globale dell’antica riflessione teologica cristiana, senza steccati tra ortodossia ed eresia.

Inizialmente Ratzinger rileva, nell’ambito della riflessione filosofica greca, la posizione degli stoici che avevano scoperto “dietro la diversità delle strutture, l’unità della essenza “uomo”, l’umanità una dell’uomo, che sussiste attraverso tutti i tempi e gli spazi” (p. 20). La concezione panteistica della filosofia stoica, più specificamente l’idea aristotelica della monarchia divina avevano trovato la loro realizzazione politica nell’impero romano.

Alla concezione panteistica, e perciò necessitante, della riflessione stoica Ratzinger contrappone la fede veterotestamentaria in un unico Dio “che si erge libero di fronte al mondo” (p. 26). Secondo tale fede l’unità iniziale degli uomini si è disgregata a causa del peccato, e il recupero dell’unità è proiettato in dimensione futura, verso il momento in cui tutti i popoli confluiranno a Gerusalemme, centro di una nuova umanità unita. La contrapposizione tra queste due concezioni viene inasprita in ambito cristiano dall’avvento di Cristo come nuovo Adamo, con cui, dopo quella adamitica, “ha avuto principio una seconda e definitiva umanità”, quella dei cristiani, che superando, mediante la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, la condizione umana di carattere naturale, “rivendicano il titolo di essere il secondo e definitivo genere umano, che già da ora va costruendosi in mezzo all’umanità antica” (p. 28).
La Chiesa cristiana era il nuovo mondo, che si contrapponeva, pur alieno da ogni forma di violenza, a quello romano, in quanto si preannunciava come il mondo definitivo e vero, al quale quello antico “un giorno avrebbe dovuto cedere” (p. 29).

A questo punto Ratzinger affronta alla rivoluzione cristiana quella gnostica, concepita come ben altrimenti radicale: “essa respinge il mondo nella sua interezza insieme col suo dio, che smaschera come cupo tiranno e carceriere, vede in dio e nelle religioni solo il sigillo e la chiusura definitiva di quella prigione che è il mondo” (p. 32). Queste pagine del libro di Ratzinger, ispirate alla interpretazione che dello gnosticismo aveva dato Jonas e che negli anni Sessanta del secolo scorso era dominante in Germania e negli Stati Uniti, vanno oggi ridimensionate insieme con quella interpretazione, in quanto l’affermato rifiuto del mondo materiale rimase negli gnostici sempre allo stadio di mera teoria, senza realizzarsi in una concezione di vera e propria teologia politica: gli gnostici furono quanto mai lealisti nei confronti dello stato romano e anche per questo, oltre che per più importanti motivi di ordine dottrinale, risultarono invisi ai fedeli della Chiesa cattolica.

In opposizione al nichilismo gnostico, la riflessione cattolica, pur non minimizzando affatto i guasti del peccato, ha sempre affermato la bontà del mondo in quanto opera dell’unico sommo Dio, e pur nella convinzione che in un tempo futuro l’impero di Roma, dai romani considerato eterno, avrebbe avuto termine e sarebbe stato sostituito dal regno di Cristo, nell’affermazione che ogni potere viene da Dio fondavano la separazione tra ciò che appartiene a Dio e ciò che appartiene a Cesare e non vedevano motivo di rifiutargli l’ossequio nei limiti in cui questo non contrastava col preminente diritto che Dio aveva sull’uomo.

Nella trama di questa riflessione s’inseriva la concezione dell’unità di tutti gli uomini in Cristo, in quanto la Chiesa è concepita già da Paolo come corpo di Lui, inteso come unico uomo nuovo (p. 37). Facendosi uomo in Cristo Dio ha tratto a sé l’uomo immettendolo nell’unità con Dio, in modo che “l’essere di Gesù Cristo e il suo messaggio hanno introdotto una nuova dinamica nell’umanità, la dinamica del trapasso dall’essere dilacerato dei molti singoli entro l’unità di Gesù Cristo, di Dio. La Chiesa è, per così dire, null’altro che questa dinamica, questo entrare in movimento da parte dell’umanità in direzione dell’unità di Dio” (p. 40).

Questo mistero di unità, che cultualmente ha il suo centro nella mensa eucaristica e che si alimenta alla più generale convinzione che tutti gli uomini in Cristo diventano fratelli tra loro, “si realizza nel singolo uomo come trapasso dalla sovranità del proprio io all’unità delle membra del corpo di Cristo” (p. 42). Fattualmente questa unità trova concreta attuazione nella rete di comunità, le singole Chiese che, pur materialmente autonome una rispetto all’altra, sono fraternamente in comunione tra loro e con Dio realizzando “l’ultimo fine dell’evento di Cristo” (ibidem).

La riflessione di Origene sul tema dell’unità dei cristiani prese consistenza soprattutto nella polemica col filosofo pagano Celso. Questi, rimproverando ai cristiani di aver abbandonato le leggi patrie, aveva prospettato una visione globale dell’unità dei vari popoli come entità diverse, sovrumanamente amministrate, sotto l’egida del sommo Dio, da divinità minori, quelle che i giudei definivano angeli delle nazioni, armonicamente conviventi nella superiore unità politica rappresentata dall’impero romano.

Origene accetta e fa sua la dottrina giudaica degli angeli delle nazioni, ma la fonda sulla sua notazione più caratteristica e importante: solo Israele, tra tutti i popoli della terra, non è stato affidato al governo di un angelo, ma è rimasto sotto il dominio diretto e la protezione di Dio (Deuteronomio, 32, 8-9): in questo senso il dominio degli angeli sui singoli popoli è valutato da Origene prevalentemente, non completamente, in modo negativo. Ne deriva che “l’opera salvifica di Cristo (…) consiste proprio nel fatto che egli ha vinto gli arconti (cioè, gli angeli delle nazioni) e ha condotto gli uomini fuori della prigionia del fattore nazionale nell’unità di Dio, entro l’unità dell’umanità una” (p. 54).
Abbiamo detto che la concezione origeniana degli angeli delle nazioni è prevalentemente, non completamente negativa. Infatti nei superstiti scritti di Origene non mancano spunti nei quali questi angeli vengono considerati come coloro che hanno trasmesso agli uomini la loro scienza, scienza del mondo, poesia grammatica retorica musica, e così via: scienza del mondo però, non sapienza di Dio che si è resa manifesta in Cristo (p. 60).

In effetti “Origene, di fronte a Celso, non nega che la fede cristiana di fatto implichi una breccia praticata attraverso l’antico principio del vincolo nazionale e politico cui era legato il fatto religioso. I cristiani hanno realmente abbandonato gli antichi legami (…) La loro guida è Cristo, che essi seguono come quel popolo nuovo presso il quale le spade sono tramutate in aratri e le lance in falci (…) i suoi uomini in Gesù sono diventati figli della pace (…) Al posto del dominio assoluto delle leggi nazionali, per il cristiano è subentrata la legge di Cristo, che ha proclamato nulle le leggi antiche (…) al posto dei limitati ordinamenti nazionali è entrata l’unica legge di Dio, che in virtù di Gesù Cristo vige per tutta l’ecumene” (pp. 63-64).

Date queste conclusioni, Origene risponde negativamente all’invito di Celso affinché i cristiani s’impegnino concretamente e attivamente a pro dell’impero: essi non possono impugnare le armi, non possono ricoprire uffici pubblici, ritengono giusto trasgredire le leggi dello stato per amore della legge di Cristo. O per meglio dire: i cristiani s’impegnano anche a pro dell’impero, ma dal superiore punto di vista del servizio reso a Dio, che si estende a beneficio del prossimo, che è dire di tutto il mondo (p. 70).

Il nuovo ordine vagheggiato da Origene era destinato a realizzarsi soltanto in proiezione escatologica, nell’ultimo tempo, in quanto la persistenza dell’impero pagano impediva ogni prospettiva presente o di prossimo futuro. Ma il radicale cambiamento impresso ai rapporti tra Chiesa e impero da Costantino imponeva un riesame radicale anche riguardo alla funzione dell’impero nel mondo attuale.

Proprio questo ripensamento operò Eusebio di Cesarea, teorizzando l’impero diventato cristiano come instaurazione del regno messianico a opera di Costantino, il nuovo Mosè. Perciò la sua quasi completa assenza non manca di avvertirsi nella pagina di Ratzinger, che passa direttamente da Origene ad Agostino, allorché la caduta di Roma a opera dei goti nel 410 mandò in frantumi, in Occidente, la simbiosi tra impero e Chiesa vagheggiata dal grande storico.

In polemica con l’aristocrazia pagana che interpretava la decadenza di Roma come punizione imposta dagli dei tradizionali ormai dismessi dall’imperatore, nella Città di Dio Agostino contesta decisamente verità e significato della religione politica imperniata sul culto degli dei tradizionali, che aveva messo gli uomini in balia dei demoni. In questa prospettiva “il sacrificio di Cristo e dei cristiani ora diviene veramente comprensibile come “redenzione”, cioè liberazione: elimina il culto politico opposto alla verità e al posto di esso, che è culto dei demoni, mette l’unico universale servizio alla verità, che è libertà” (p. 84).

In ambito filosofico, in polemica sia con la divinizzazione del mondo affermata dal panteismo stoico sia con l’eccessivo divisismo, per altro accentuato dal nostro autore, predicato dal platonismo, Agostino propone la convinzione cristiana sia del mondo come creatura di Dio sia della funzione dell’incarnazione di Cristo come presenza di Dio nella storia degli uomini. Ne deriva che il bene e il male operati dai vari regni terreni, che si sono succeduti nella storia, sono stati voluti da Dio, sì che il dominio di buoni e cattivi è “il segno, duplice e unitario insieme, di Dio nella storia, che allude tanto al potere assoluto di Dio come alla relatività dei valori immanenti al mondo, e particolarmente della grandezza politica” (p. 93).

Di qui la bivalente, e al fondo negativa, valutazione della potenza romana, meritato frutto di prisca virtus e, insieme, di illimitata ambizione: i romani “avevano ricercato e ricevuto il regno della terra al posto del regno eterno, la fama terrena in luogo della gloria imperitura. L’impero romano, il segno della loro grandezza, fu contemporaneamente l’indizio della loro riprovazione perpetua” (p. 95).

Agostino ha riconosciuto il valore positivo dell’impero, sua patria, capace di buona amministrazione, mirata al benessere terreno dei sudditi, ma valore relativo a riscontro del valore assoluto della patria eterna di tutti gli uomini, la città celeste, concepita non soltanto come realtà escatologica, ma già ora come “popolo di Dio nel pellegrinaggio attraverso il deserto del regno terreno, la Chiesa”, che in questo mondo vive come straniera in esilio perché il suo vero luogo è altrove (p. 104).

Nel suo vivere nel mondo la Chiesa deve necessariamente convivere con lo Stato: Agostino si è reso chiaramente conto della necessità, pur nella loro imperfezione, del permanere dei regni terreni. Mentre Origene, attivo in epoca in cui il cristianesimo era religio illicita, aveva guardato direttamente alla fine del mondo come realizzazione della città celeste, Agostino, meno rivoluzionario, vede già ora all’opera la Chiesa, ormai religione ufficiale dell’impero, che abbraccia nella sua estensione tutti i popoli e unifica nell’amore tutte le lingue che il peccato aveva diversificato; essa per altro, contro ogni facile tentazione di potere terreno, non deve avere “la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un’entità sacramentale – escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro” (p. 113).

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