Viaggio dalla cultura alimentare ebraica a quella veneziana 

«Ma non mangerete quelli che ruminano soltanto o che hanno soltanto l’unghia bipartita, divisa da una fessura e cioè il cammello, la lepre e l’irace, che ruminano ma non hanno l’unghia bipartita; considerateli immondi; anche il porco, che ha l’unghia bipartita, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri. Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darai al forestiero che risiede nelle tue città, perché la mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio. Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre» (Deuteronomio, 14, 7-8 e 21). 

ESISTE UNA CULTURA ALIMENTARE EBRAICA? 

Dalla Bibbia si apprende che Adamo era vegetariano e il permesso di mangiare carne fu dato solo dopo il Diluvio Universale, a patto che l’animale fosse morto, e non per atto casuale, ma per mano dell’uomo. Successivamente Mosè, ritornato dal monte Sinai, perfezionò le regole alimentari sottolineando che i pesci devono essere provvisti di squame e di spine (che devono essere anche facili da togliere) e che i volatili non devono avere gli artigli e il becco ricurvo come i rapaci.

Le regole alimentari ebraiche sono stabilite dalla Torah, i cinque libri biblici (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), che riportano le norme che si applicano anche a tutti gli aspetti della vita e trasformano l’atto del cibarsi da un atto di semplice sopravvivenza ad un rito sacro, un momento della quotidianità che aiuta a percorrere la via della perfezione.La base della codificazione delle regole alimentari stabilite dalla Torah si trova nel concetto di kasherut, che significa adeguatezza e che indica la possibilità o meno di un cibo ad essere consumato da un ebreo osservante e, attenzione, la norma non è una critica nei confronti dell’animale. L’irace, per esempio, è il mammifero più simpatico del mondo, ma non è puro e quindi non si può mangiare.

Perché tutto questo?

La tavola viene vista come un altare e le regole che normano la preparazione di un pasto, unitamente a tutte le regole che normano la quotidianità, concorrono a costruire una guida per l’esistenza con modelli di comportamento che, se osservati, porteranno alla qedushah, la perfezione, la santità. Un’aspirazione raggiungibile da ogni singolo membro della comunità. Molte quindi sono le regole che normano un atto indispensabile come quello del cibarsi e sono così scrupolose che a prima vista potrebbero far considerare la cucina ebraica una delle più monotone del mondo.

Niente di più errato.

La diaspora, ovvero il fatto che per migliaia d’anni gli ebrei non potessero raccogliersi in un determinato luogo, dando vita ad una nazione collocata in una specifica area geografica, ha fatto sì che le innumerevoli comunità ebraiche sparse nei cinque continenti abbiano prodotto innumerevoli consuetudini gastronomiche, offrendoci  una incredibilmente ricca  tavolozza di  colori e di  sapori. Provate a pensare ad un ortaggio come il carciofo e in quanti modi diversi viene preparato e condiviso a Venezia, a Roma o a Livorno.

Ed ho citato un solo ortaggio!

I CONTATTI CON VENEZIA 

Grande centro di scambi fra l’oriente e l’occidente, Venezia accolse gli Ebrei fin dagli inizi del XI sec. e in un alternarsi di divieti e permessi divennero un nucleo così importante che il 29 marzo 1516 il governo della Repubblica stabilì che dovessero tutti risiedere in un’unica zona della città, in un’area in cui anticamente avevano sede le fonderie, geti in dialetto.

Le sinagoghe, o Scole, del ghetto veneziano vennero fatte costruire, tra la prima metà del 1500 e la metà del 1600: sorsero così le Scole ashkenazite Tedesca e Canton, la Scola Italiana, le Scole sefardite Levantina e Spagnola. Con la contaminazione tipica di una città cosmopolita come Venezia, parlare di «cucina ebraica» è indubbiamente complesso, ma è grazie ad un unico ingrediente che oggi Venezia può vantare la più variegata e virtuosa fusione tra la severa cucina ashkenazita del Nord Europa con quella sefardita, deliziosamente speziata e dall’impronta mediterranea, ovvero l’apertura verso il diverso.

Gli Ebrei ashkenaziti introdussero a Venezia l’oca declinata nella famosa «Oca in onto», nei pasticci di frolla ripieni di pasta e ragù d’oca e anche nella golosissima «Fugazza cole gribole», una focaccia impastata con pezzetti di pelle d’oca fritti . Le spezie trasformarono il riso nel «Riso zalo», preparato con il preziosissimo zafferano e servito con l’uvetta e zucca baruca (da barùkh: santo, benedetto) non mancherà mai nei ricettari di famiglia come l’agrodolce, che diventa ancora più intrigante se abbinato all’uvetta ed ai pinoli. Infine la pasticceria, ricchissima di mandorle ed aromi, accompagna ancor oggi ogni singolo momento della quotidianità, dal bolo, una morbida focaccia dalla lunga lavorazione, alle azzime dolci, dalle bìse ai sucarìni, dalle impàde alle «recie de Aman». Golosità che si possono ancora oggi gustare nel panificio Volpi, l’unico presente nel Gheto.

HANNUKKAH (FESTA DELLE LUCI) 

Come si diceva prima, se la tavola corrisponde all’altare, le feste religiose sono fondamentali per la vita ebraica e comportano la preparazione e il consumo di piatti particolari, rispettando un simbolismo che corrisponde alla festa medesima e alla stagionalità, essendo anche molte feste pagane assorbite successivamente dalle consuetudini religiose.

La Festa delle Luci è una festa che cade verso la fine di dicembre e ricorda la vittoria dell’esercito guidato da Giuda Macabro, che sconfisse le truppe seleucidi che erano entrate in Gerusalemme, nel 165 a.C., profanando il tempio, che doveva quindi essere purificato, e la Menorah (candelabro) doveva restare accesa sempre. Purtroppo non c’era olio a sufficienza, ma quel poco rinvenuto fra le macerie bruciò per ben otto giorni. Per commemorare questo miracolo, è tradizione accendere ogni sera della festività una luce dell’hannukah, il tradizionale candelabro a nove bracci e il cibo rituale, visto l’importanza dell’olio, non può che essere fritto! Largo quindi al pollo fritto ed alle frittelle di mele che verranno accompagnati dai più leggeri ravioli di spinaci e dalla minestra di ceci o di lenticchie, oltre all’immancabile oca ripiena.

E quindi bete’avòn, buon appetito! E Buone Feste.

[Articolo redazionale, pur firmato da Anna Maria Pellegrino, datato 14 dicembre 2017, tratto da: https://conipiediperterra.it/cultura/viaggio-dalla-cultura-alimentare-ebraica-quella-veneziana-5917 ]

Nella foto: Negozio di un calzolaio e fabbricante di scarpe ebreo, in Francia. Stampa del 1894.

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