Ancora sul forno fusorio di Sgrafedera

Nella foto: Particolare del Disegno del 1792. Nella foto sotto: il Disegno nella sua interezza. – Si ricorda che le immagini possono essere viste a schermo intero (o quasi) cliccando su di esse.

Caro Sante, grazie delle notizie sul forno fusorio di Sgrafedera e, poi, delle due fotografie del «Disegno» fatto nel 1792 dal perito Tison di Belluno. «Disegno» bellissimo, in parte rovinato ma anche ottimamente recuperato; e il bellissimo è reale, non un complimento. Essendo però stato posto in una cornice con vetro, per il momento ogni sua fotografia non può che risentire, poco o tanto, del riflesso della luce sul vetro stesso. Ciò nonostante, le pubblicherò sul blog del Baliato, perché i nostri convalligiani e gli studiosi possano vedere e apprezzare il «Disegno», nella sua struttura generale e nel particolare che in questo momento c’interessa, relativo alla collocazione dell’antico forno fusorio vescovile detto «di Fusine» o «di San Nicolò».

Risulta evidente, anzitutto, che la località in cui sorgeva il forno fusorio era, geograficamente, sul lato destro del torrente Maè, quindi fuori del costone del Col Negre e del Ponta, che sono entrambi sul lato sinistro; ed era, amministrativamente, fuori del territorio di pertinenza sia della Regola Grande dai Coi come di quella di Fusine; anzi, stando alla sentenza del 1398, era persino fuori della proprietà collettiva delle quattro Regole del «Comun di San Nicolò» (espressione successiva) e posto, invece, in un’area di proprietà collettiva, ancora in parte promiscua e comprendente pure al suo interno vastissime proprietà di nobili non zoldani, delle Regole di Gòima e di Dont; quest’ultimo fatto spiega la successiva intestazione o terminazione del 1622, di cui alla tua lettera.

Dal «Disegno» risulta, per secondo, una lieve insicurezza a riguardo del nome. L’area è indicata come GAFEDERA. Si può ipotizzando che la S iniziale sia non visibile a causa dello strappo che il foglio ha subito nella metà inferiore del rigo dove sarebbe stata tale S; ma la metà superiore del rigo, non interessata dallo strappo, ha spazio non scritto sufficiente per credere che tale S non ci fosse, visto pure che le lettere sono scritte in maniera molto ravvicinata e, inoltre le prime due (GA) sono leggermente maiuscole (ma potrebbe non aver valore). In ogni caso, non compare la consonante R che darebbe un GRAFEDERA o uno SGRAFEDERA. E poco sotto compare il toponimo, sbiadito ma ben leggibile, di «Costa di Sgrafedera», sia con la S che con la R. Più sotto, però, dovrò aggiungere delle altre osservazioni.

Dal «Disegno» apprendiamo, per terzo, che Sgrafedera è toponimo che indica l’area vasta del costone che (da nord a sud), iniziando con l’accennata Costa di Sgrafedera, si estendeva verso le proprietà dei nobili Raspi e Sessa. Un’area contraddistinta da un non facile accesso, a causa del torrente Maè, se pure raggiungibile anche da una mulattiera sul suo lato destro (ora, al contrario, la strada Dont-Fusine è sul lato sinistro del Maè) o da Cercenà; e area circondata su ben tre lati da aree dichiarate pericolose: «Pascolivo Pericoloso, locco Pericoloso, Pascolivo Pericoloso». La sommità della costa, in altre parole, era di ben difficile utilizzo permanente, mentre quelle intermedie, pur pericolose, potevano essere usate a pascolo di animali minuti (pecore e capre). In quanto alla strada di allora Dont-Fusine, ricordiamo pure che in località detta Trévec, «trivio, incrocio di tre vie», a Rutórbol, tramite un vecchio ponte sul torrente Maè (detto «di Rutorbol»), essa collegava direttamente il forno a Iral e agli altri masi del Col Negre (uno dei coi della Regola Grande dai Coi).

Solo l’area ancor più in basso, appena sopra il Maè, veniva considerata accettabilmente vivibile, almeno secondo i criteri di allora. E lo erano pure (ma ormai si era fuori del costone di Sgrafedera) quelle, più a sud e più soleggiate, essendo a mezza costa, di Cercenà e, soprattutto, del vasto pianoro del maso di Foppa, entrambe dichiarate segative, cioè adatte alla fienagione. D’un qualcosa di simile al segativo, nell’area di Sgrafedera, abbiamo documentazione solo nella lodevole iniziativa del «Roncho di Zammaria Scarcenella». Il terreno, per natura, non avrebbe permesso lo sfalcio o, almeno, non l’avrebbe consentito più di tanto, ma Giovanni Maria Scarzanella era stato un lavoratore indefesso e ingegnoso e, certo nel volgere di almeno una decina d’anni, era riuscito a coltivare un’area, relativamente vasta, a roncarla, ossia disboscarla (soprattutto dagli infestanti cespugli di piante spinose o a larghe foglie, dai noccioli selvatici e da tutte le piante che ben conosciamo e sono un po’ la maledizione dei terreni che si vogliono tenere a prato o coltivare a campo). Da agricoltore, durante la mia giovinezza, mi chiedo soprattutto come avesse fatto a concimare quell’area e non so distaccarmi dall’idea di un trasferimento periodico del suo bestiame nei pascoli limitrofi. Poi quell’oasi verde, che avrà guardato con occhio felice e cuore commosso, era stata da lui circondata da uno steccato ossia da una palizzata o, almeno, da qualche muretto basso, come se ne vedono ancora in valle, per evitare che vi entrassero, a danneggiarlo, gli animali selvatici di passaggio o le pecore, nelle loro transumanze, con la loro urina acida, che avrebbe rovinato gravemente la crescita dell’erba. Com’è bello anche per me oggi, dopo tante generazioni, pensare all’amore per la sua terra che aveva Zammaria Scarzanella!

Non fosse stato che abitava a Fusine, forse si sarebbe trasferito nell’area del vecchio forno fusorio; chissà quante volte l’ha pensato! La scelta non sarebbe stata assurda e ridicola, come giudichiamo oggi, gente che si è rassegnata – quali siamo – al fatto che tutto il canale da Dont a Rutorbol (a parte Fop) sia disabitato. Lì vicino, a fine Settecento (1792) c’era, caseggiato di lavoratori altrettanto laboriosi e tenaci, Cercenà e, più sotto ma non tanto distante, lo scomparso «locco Segativo detto de Maer», raffigurato nel «Disegno» da una bella casa d’abitazione. Se non vado errando, da lì sono partite le famiglie Majer esistenti in val di Zoldo, tutte famiglie di abili artigiani e artisti, la cui storia meriterebbe di essere raccontata – come mi piacerebbe riuscire a fare – in uno studio specifico.

E, a riguardo di Cercenà, a questo punto dobbiamo chiederci se non fosse un casale o maso sorto in collegamento con il forno fusorio stesso, ossia che il cercenà (tagliare la corteccia in cerchio, verso la base di un albero, e dar fuoco alla resina, sicché il fuoco distruggeva quella pianta e le circostanti) non fosse – come si è finora creduto – un metodo diffuso (dalla Carnia al Sud Tirolo e anche in altre località, alpine e non) per bruciare un bosco e ricavarne successivamente un maso (quindi un’azione finalizzata, in definitiva, all’espansione dell’attività agraria) ma un’azione rientrante tra quelle orientate proprio al funzionamento di un forno fusorio; il che, a dire il vero, anche in termini di economia generale sarebbe stato molto e molto più vantaggio e anche solo ragionevole.

Qualcuno potrebbe obiettare che lo Scarzanella s’era impossessato di una proprietà collettiva, compiendo un furto: non è vero. Stando alla sentenza del 1398, tra i diritti degli investiti dei beni collettivi, vi era (riassumo le espressioni usate dai giudici) lo «ius standi, habitandi, pasculandi, seu pasculare faciendi, edificandi, et edificare faciendi,et alia faciendi pro libito voluntatis»; di fare dunque anche «singula edificia», quando solo si fosse creduto utile. Ebbene, se gli eredi dei contitolari del forno fusorio avevano mostrato un interesse marginale per quell’area, nessuno di loro – come ben sapevano – poteva impedire a chicchessia tra essi eredi, di occuparsene maggiormente, secondo un ragionamento più o meno così: «A noi non interessa; se a te interessa, fai pure; quel che realizzerai, resterà tuo».

Sarebbe interessante fare un confronto, se possibile (viste le diverse forme grafiche utilizzate) tra il «Disegno» del 1792 ed il catasto austriaco, nel quale si parla ancora della proprietà dello Scarzanella e, soprattutto, con il catasto attuale, per verificare se, nel punto del suo ronch, il Maè abbia fatto delle erosioni. Intendo dire: può darsi che ci siano state delle modificazioni geologiche o per riempimento con materiali trasportati dal Maè o, al contrario, per erosione. Questi confronti permetterebbero di capire, o almeno intuire, dove potevano essere gli edifici del forno. In questo momento, per istinto sono orientato a credere che il forno fosse costruito esattamente nel pianoro della federa e, così pure, che il ronch sia stato ricavato nella stessa area e che perciò lì sia stato ritrovato, sia pur fortuitamente, dal sig. Nicolò Zalivani il massello di ghisa da 180 chilogrammi.

A proposito del massello, mi viene poi da ritenere che l’abbandono del forno sia dipeso da un’alluvione disastrosa, che aveva sommerso strutture e materiali, perché sembra impossibile che, diversamente, nessuno degli altri forni fusori di Zoldo si sia occupato di acquistare quei 180 chilogrammi di ghisa e quant’altro, materiale tutto che, dopo la scoperta dello Zalivani, è ipotizzabile si possa un giorno ritrovare. Limitare la sua scoperta al singolo massello non ha senso; bisognerà pensare di far qualcosa.

Per quanto non sia di mia competenza, aggiungo qui alcune parole sul toponimo Sgrafedera. Esso mi sembra composto da due parole, sgra e federa. E presento subito la mia ipotesi conclusiva, che esso significhi Gaf de la federa, «Incavo della [dove c’era la] radunata delle pecore», riferendosi in concreto alla parta basale del costone con lo stesso nome.

La particella sgra: non so intenderla ma mi sia consentito di immaginarla collegata con i due toponimi appena sottostanti, come si evince dal «Disegno»: Gaonaz (il maggiore) e Val di Gaonaz (una parte del primo toponimo), ossia da Gavonaz (con rafforzativo finale –az come in Pianaz e Brusadaz, ma anche Gavaz; mentre la z è certamente da leggere come ž), da cui in Zoldo anche i vari gavóin, ossia «fondovalle ristretto, tra due costoni». Nel nostro caso, il toponimo è perciò in riferimento allo stretto fondovalle, al basso letto del torrente Maè. La s iniziale ipotizzo sia uno di quei rafforzativi presenti in alcune parole ladine, ad es. in s-giónf, «gonfio, s-limech, da limaccioso, con il significato finale di «viscido» et similia. Semplici tentativi di comprensione del termine, esposti sì per iscritto ma senza la minima pretesa.

Federa è toponimo ben noto e diffuso in area linguistica ladina, indicante il luogo, sovente delimitato alla maniera dei ronch, di raduno periodico, fors’anche giornaliero (dipende dal tipo di pascolo adottato o dal periodo di transumanza) delle pecore o féde. Ora, una federa in Sgrafedera poteva aver senso solo per persone di Zoldo, da Dont compreso in basso; richiama, perciò, un’attività pascoliva in valle svoltasi in tempi molto antichi, precedente al formarsi dei masi abitati stabilmente nell’area di San Nicolò o della Capéla (la cappella a lui dedicata), indirettamente menzionata nel 1185. In val di Zoldo vi è un toponimo simile ed è Fedele, tra Dozza e Bragarezza, avente lo stesso significato. Entrambi fanno pensare ad un’epoca, quella anteriore al 1185, quando sopra Fedele e sopra Sgrafedera c’erano solo pascoli, al pari di altri «locca pericolosa» o meno pericolosi. Si potrebbe pensare ad una transumanza di pecore possedute da persone non di Zoldo e a delle cessioni in affitto a queste ultime. Il documento del 1494, cui accenni nella lettera, e altri documenti di quell’epoca, parlano proprio di simili affittanze, fatte dai regolieri di un villaggio all’insaputa (e quindi a danno) di quelli di altri villaggi o masi. In tal caso, Sgrafedera poteva essere un luogo di sosta durante la transumanza; ma, in ogni caso, ciò non poteva essere nel sec. XIV e fin quando il forno fusorio era in funzione. Intendo dire: il transito sarà pur stato permesso, ma non il pernottamento o la costruzione della federa.

Visto che l’area rientrava in quella concessa ai Trevisani in base alla sentenza del 1398, come tutta la «monte di Goima dal Bosco», di cui Sgrafedara è una porzione, si potrebbe pensare che il toponimo derivi da una loro frequentazione estiva, ma la cosa non mi convince, sia per la posizione di fondovalle (che presume un utilizzo durante la transumanza e non per una gregge stanziale, che i pastori si sarebbero ben guardati dal portare alla sera dall’alto in basso, attraversando «locca pericolosa», sia perché – ed è una conferma di questa osservazione – essi entravano in val di Zoldo seguendo la strada del passo Duran e del monte di Gòima della Grava, alle falde del «Sas de la Moiazza». E questo resta valido pur senza dimenticare che i pastori della nobile famiglia trevisana di Gaspare Braga (di cui al doc. 1398) erano intraprendenti e, durante l’estate, non stavano con le mani in mano, ma andavano ovunque sulla montagna di Gòima, dalla Grava e dalla val di Pecol a sopra Fusine e Sgrafedara e fino ancora alla Grava, infischiandosene dei regolieri; disboscavano, roncavano, cercenavano, e costruivano tettoie (scófe) e capanne (noi diciamo casót, nel documento è latinizzato in un generico ed elegante «omnes, et singulas edificia, et Casellas», con l’aggiunta: «per ipsos vel alterum ipsorum facta, et factas in, et super dictis amplis et pascuis, si qua fecerunt». Dal casellas, che può essere tradotto anche (e non meno giustamente) casélo anziché casót, si capisce anche che lavoravano il latte delle capre o delle mucche, condotte con gli animali minuti, a loro nutrimento o a produzione di formai de caura per i loro padroni. E dalla formula prudenziale posta in fine («si qua fecerunt», «se per caso li hanno fatti») apprendiamo che i giudici stessi, ottime persone in generale e nel caso specifico, pur qualche granellino di riguardo in più verso i Signori non riuscirono ad ometterlo, poiché è certo che stavano giudicano (e non poteva essere diversamente) dei fatti e non delle eventualità.

Dall’espressione «per ipsos vel alterum ipsorum», apprendiamo che «edificia, et Casellas» erano stati fatti «da loro [pastori] o da qualcun altro di loro», cioè della loro compagnia, anche non pastore. Nel testo della sentenza sono ricordati così:

«Auctores, pastores, et familiares, et conductores, et alios eorum nomine facientes fuisse, et esse in tenuta, et possessione vel quasi predicti montis et iuris pasculandi, et montigandi in ipso monte omni, et singulo anno à quinquaginta citra, et ultra maxime tribus mensibus anni, Junii, Julii, et Augusti; et ideo petebat idem Vicentius nomine actorio predicto per prefatum Dominum Vicarium pronuntiari, et declarari debere dictum Gasparum hereditario nomine predicto habere meliora, et potiora iura in proprietate, et possessione vel quasi, et iuris montigandi, et pasculandi, ac capulandi cum suis pecudibus, et animalibus per se, et suos pastores, et familiares, et conductores, et alios suo nomine facientes, et alia faciendi ut premittitur in, et super dicto monte de Goyma cum suis pertinentiis maxime predictis tribus mensibus cuiuslibet anni».

La vasta area di pascolo era perciò, «soprattutto nei tre mesi di giugno, luglio e agosto» ma anche in buona parte di maggio e settembre, assai frequentata da non Zoldani, addetti alla pastorizia, attività produttiva allora (giustamente) assai apprezzata. Vi erano dei responsabili, dei pastori, i loro eventuali familiari, dei custodi delle greggi durante i trasferimenti. Il pascolo era organizzato per tempo, assumendo personale adatto, anche stagionale («altri di loro») e ognuno aveva il suo incarico. Vi era il direttore della malga e del personale, che doveva rendere conto dell’andamento generale dell’azienda pascoliva ai suoi padroni di Treviso; egli, magari con un altro uomo di fiducia, figurava come l’assuntore (cfr. autore, al plurale) della malga o montagna di pascolo. Vi erano poi i pastori “di primo livello”, detti semplicemente pastores: casari, muratori, falegnami, fabbri, maniscalchi, carbonai, ecc., incaricati delle strutture abitative, delle strade e dei ponti, delle condotte dell’acqua, delle riparazioni, del soccorso agli animali feriti, della macellazione degli animali uccisi, forse anche dell’uccisione degli animali selvatici e, soprattutto, della lavorazione del latte prodotto e della conservazione dei derivati; tutte persone che, comunque, facevano anche i pastori, se del caso e quando non richiesti nelle loro attività specifiche. Questi pastores dovevano costituire il gruppo più numeroso, composto tutto da maschi, poiché è dopo di loro che si elencano i familiares, ossia – secondo le disponibilità delle singole famiglie – i figli maggiorenni o anche minorenni, mentre fatico a pensare ci fossero anche le mogli, ma non è da escludere (sarebbe interessante verificare, ma come fare? La cosa comportava conseguenze importanti sulla vita affettiva dei pastores, ma essi preferivano così, certamente, poiché così era nella mentalità generale fino a pochi decenni fa). Infine vi erano i conductores e gli assunti per un periodo o per quella determinata «stagione di pascolo», ragazzini impiegati nei lavori più umili, in qualche caso soggetti a violenza eppure indifesi dalla legge. Questi scugnizzi saranno stati di fatto poco più che i «cani da guardia umani» delle greggi, spinti a correre di qua e di là, vestiti e nutriti alla meno peggio, in quel contesto umano già così limitato (la poesia bucolica è fatta da chi non ha praticato la pastorizia sulla propria pelle).

Mi sia consentito riportare per intero, per comodità di lettura, il proseguio della sentenza:

 «Item dicimus, sententiamus, et pronuntiamus dictum Gasparum et dictum Liberalem eius tutorem et tutorio nomine ipsius et dictum Vicentium actorio nomine praedicto habere meliora et potiora iura in proprietate, et possessione vel quasi, et iuris montigandi, et pasculandi, et capulandi cum suis pecudibus, et animalibus, per se, et suos pastores, familiares, conductores, et alios suo nomine facientes, et alia quaecumque faciendi in, et super toto residuo dicti montis de Goyma cum suis pertinentiis, et locis ad totum ipsum residuum dicti Montis spectantibus omni, et singulo anno, et praecipue mensis Junii, Julii, et Augusti cuiuslibet anni; quod dicti homines, et Regulares de Marasono, de Peculo, delle Fusinis, et de Coijs Sancti Nicolai, et de Planatio, et quod dicti eorum Sindici, et Sindicario nomine ipsorum, et ipsis hominibus, et Regularibus, et Sindicis antedictis nullum ius compere praedicta faciendi in toto residuo praedictis Montis maxime dictis tribus mensis anni; Item per hanc nostram Sententiam condemnamus dictos homines, et Regulares, et eorum Sindicos, et Sindicario nomine ipsorum quod in praesens, et in futurum non molestandum, nec turbandum, nec inquietandum dictum Gasparum, et dictum eius tutorem tutorio nomine ipsius in dicta possessione iusque montigandi, et montigari faciendi, standi, et habitandi, capulandi, et pasculandi cum pecudibus, et animalibus in, et super dicto toto residuo dicti montis, et quibuslibet locis totius dicti residui, et habitandi, ibique habendi, tenendi, et possidendi, vel quasi omni, et singulo anno, et alia faciendi pro libito voluntatis, et ad permittendum ipsum pacifice et quiete possidere vel quasi, et montigare, et alia facere ut dictum est in toto dicto residuo dicti montis, et maxime dictis tribus mensibus anni Junii, Julii, et Augusti».

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Torniamo al toponimo e a Zammaria Scarzanella. Nell’estimo del Capitaniato di Zoldo, settecentesco ma che proprio in base al «Disegno» del 1792 si conferma tardivo e coevo allo Zammaria, di lui appaiono le seguenti annotazioni:

foglio 303 verso

Zamaria Scarzanella q. Nicolò. Regola dalle Fusine. 

5112. Ai Campi da Pecol. Campo di calvie 1 quartaroli 1 ¼ à mattina possessor, mezzodì strada, sera, e settentrion Nicolò Sora Maè. Pessimo, L. = : 6 : 6

5113. Campi di Toffol. Campo in due pezzi di calvie 14 quartaroli 1 ½ à mattina strada, mezzodì Case de possessor, sera commun, settentrion Chiesa di S. Vallantin. Cattivo, L. 7 : 3 : 9

5114. A’ Scoter. Campo di calvie 2 quartaroli 1 ½ à mattina, e mezzodì strada, sera Ruio, settentrion Andrea Panciera. Pessimo, L. = : 11 : 10 ½

5115. A’ Bernard. Campo di calvie 3 quartaroli 1 ¾ à mattina, e sera Zuanne Panciera, mezzodì possessor, sera [ma è settentrion?] Andrea de Lucia. Pessimo, L. = : 17 : 2

5116. A’ Lucia. Campo di quartaroli 2 ¾ à mattina David, mezzodì possessor, sera Andrea de Lucia, settentrion Tabiado. Cattivo, L. = : 6 : 10 ½

foglio 304 recto 

5117. Al Pian dal Caval. Prado di carra 1 2/4 à mattina Heredi di Giacomo Sora Maè, mezzodì Heredi di Vallerio, sera Zuanne Taier, settentrion Antonio Scarzanella. Cattivo, L. 1 : 2 : 6

5118. La val Moreta. Prado di carra 2/4 à mattina, e mezzodì Piero dal Cason, sera, e settentrion più persone. Cattivo, L. = : 7 : 6

5119. Alle Palle. Prado di carra mezo fen à mattina Zuanne Panciera, mezzodì Andrea de Lucia, sera David, settentrion commun. Cattivo, L. = : 7 : 6

5120. A’ Retorbol. Prado di carra 2/3 à mattina Rù, mezzodì possessor, sera, e settentrion più persone. Mezan, L. 1 : = : =

5121. A’ Costa Pich. Prado di carra ¼ à mattina Heredi da Pianaz, resto più persone. Cattivo, L. = : 3 : 9

5122. Sotto i Mas. Prado di carra 2/3 à mattina, e settentrion più persone, mezzodì Vallerio Panciera, sera Giacomo Sora Maè. Cattivo, L. = : 10 : =

[Idem.] Dont. 

5123. A’ Graffedera. Prado di carra 1/20 à mattina, e sera strada, mezzodì Piero Cordella, settentrion commun, et altri. Pessimo, L. = : = : 6

[Idem.] Regola dai Coi. A’ Pianaz. 

5124. Al Lares. Campo di calvie 2 à mattina Rui, mezzodì strada, sera, e settentrion Zuanne Socol q. Battista. Cattivo, L. 1 : = : =

304 verso

L’oltrescritto Zamaria Scarzanella q. Nicolò, et Consorti dalle Fusine. 

5125. Alli Mollinat. Un Mollino con una roda à mattina strada, resto Zuanne Panciera q. Bortolamio. Si potrebbe affittare [per capital di] L. 10 : = , L. 5 : = : =

In definitiva, lo Scarzanella era un mugnaio, proprietario, come beni immobili: 1) Assieme ad alcuni consorti, di un mulino nel regolato di Fusine, in località Mollinat, del valore catastale di lire 10 (o 5 ?); 2) Di sei campi, cinque nel regolato di Fusine e uno in quello di Pianaz, del valore catastale complessivo di lire 10 : 4 : 18; 3) Di sette prati, sei nel regolato di Fusine e uno in quello di Dont, del valore catastale complessivo di lire 3 : 10 : 13. Le qualifiche dei campi sono: Pessimo, cattivo, pessimo, pessimo, cattivo, cattivo; quelle dei prati: per 1 pessimo, per 5 cattivo e per 1 mezzano. Il campo migliore era quello che aveva in quel di Pianaz e il prato migliore lo possedeva «à Retorbol» (però, evidentemente, fuori dell’ambito della Regola Grande dai Coi). Il prato peggiore era «à Graffedera», in quel di Dont e si tratta proprio del ronch, valutato poco e niente, cioè appena 6 parti d’un soldo, quando per fare una lira erano necessari venti soldi. Sembrerebbe, perciò, come dicevo sopra, che non interessasse a nessun erede del forno quel ronch che Zammaria era andato a ricavarsi nell’area del vecchio forno fusorio e, dall’altra, che lui ce la mettesse tutta per acquistarsi qualche po’ di terra, in giusta proporzione tra campi e prati, investendo quel non molto che guadagnava con il mulino e mantenendosi per il resto con le proprie forze. Una storia vera, umile e grande, la storia vera dei nostri antenati.

Qui ci interessa però considerare il toponimo, poiché compare ancora (ed è importante) quale Graffedera e non, come ci aspettavamo, Sgrafedera o – mettiamo – Sgraffedera. Il che, comunque, credo confermi la lettura linguistica fatta sopra, ossia che la S iniziale è solo un rafforzativo ladino del -gra. A meno che -gra non sia nient’altro che una contrazione di grande, con un esito finale quale «Gran federa». Mah! Aspettiamo di avere a disposizione qualche altro documento, sia per definire meglio le aree di pertinenza del forno come per comprendere meglio il senso del suo nome.

Nella precedente mail, avevo esposto una serie di considerazioni sul cambio di riferimento toponomastico del forno fusorio, ossia l’aggiunta di quel riferimento a Fusine che già allora aveva portato a intenderlo come «il forno di Fusine», mentre prima era nient’altro che «di San Nicolò». Ne era derivata, cioè, una lettura storica che, analizzando ora i documenti con più calma, mi sembra – come scrivevo – «essere andata completamente fuori strada». Scrivevo: nel 1365 «si parla di forno “de Sancto Nicolao de scarsadera”, senza riferimento topografico a Fusine, mentre nel documento del 1394 si parla di furno et aquisto furni de la fusinis de Schassodera cum omnibus suis fusinis […]”». Nella precedente mail perciò concludevo: «Come si vede, da prima il forno era indicato solo in riferimento alla chiesa di San Nicolò e al suo posizionarsi in Scarsadera, non c’era riferimento a Fusine, come invece avviene nel 1394. Le stesse fusine o officine, del resto, erano delle realtà riferite al forno e non poteva essere assolutamente il contrario: che fosse il forno fusorio in riferimento a sue strutture di servizio e lavorazione del ferro già fuso». Infine, osservavo: «Il documento del 1394 ha significativamente il termine fusinae sia nel senso di toponimo (le Fusine), sia in quello originario di officine». Qualcosa avevo intuito, ma non ancora messo bene «a fuoco», anzitutto a me stesso, che il punto di riferimento finale in ogni caso non è né Fusine né la chiesa di San Nicolò (l’espressione San Nicolò indica la chiesa e, per estensione, l’area umana su essa convergente, quella delle quattro Regole di Mareson, Pecol, Fusine e Grande dai Coi). Il riferimento in entrambi i documenti (del 1365 e 1394) è Sgrafedara, nel primo detta Scarsadera e nel secondo Schassodera. Intuirlo e ammetterlo è rivoluzionare la prospettiva storica sin qui avuta. Se prendiamo sul serio l’espressione, essa ci dice che, in una fase iniziale che non riusciamo a precisare cronologicamente, il punto di riferimento antropologico dell’alta valle di Zoldo non era né Fusine né la cappella di San Nicolò, ma proprio il dimenticato punto geografico ora denominato Sgrafedera. Ma è mai possibile? E che senso può avere? Non posso però ignorare le domande difficili e nuove, negare loro valore, solo perché non sono ancora in grado di dar loro una risposta; essa un giorno sarà trovata. Essa sembra però orientarmi a credere che allora, e può essere stato sul finire del primo millennio e prima (comunque prima del 1185), la parte alta della valle fosse effettivamente nient’altro che zona di pascoli stagionali.

E, nello stesso tempo, non posso non tener conto di come, in entrambi quegli antichi documenti, il toponimo sia simile tra essi ma non a quello giunto a noi, con un iniziale Sca- e Scha- , anziché Sgra- , uno sviluppo centrale -rsa- e –sso- , anziché –fe- , però con un finale comune in –dera (mi viene a mente la parola ladina prendera). La questione etimologica, pertanto, resta aperta, e ancor più, dopo aver evidenziato queste discrepanze. Concludo, per questa volta, con una specie di battuta, che battuta non è: «Non avremo compreso realmente la storia iniziale della colonizzazione dell’alta val di Zoldo fino a quando non avremo compreso il senso e il ruolo che rivestiva, e a quanto inizialmente si estendeva, Sgrafedera».

Mi perdonerai gli errori di battitura.

don Floriano Pellegrini

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