La colonizzazione iniziale di Zoldo, a merito dei nobili e del vescovo conte di Belluno, tramite masi e cappelle

 

Nella foto: Forno di Zoldo negli anni ’20 del Novecento. Se era così la situazione solo cent’anni fa, si può appena immaginare come fosse la situazione al tempo del forno fusorio, soprattutto nei secoli XIII e XIV; dev’essere stato quasi lo squallore. 

Caro Sante, t’invio alcuni appunti «messi giù» senza badare troppo a concatenarli, nella sola speranza che non vadano perse alcune riflessioni.

1) Pensando al ronch di Zammaria Scarzanella e alla sua raffigurazione nel «Disegno» del 1792, mi sono chiesto se, in generale, i ronch non fossero stati le «strutture agricole» che venivano latinizzate dai notai con il termine clausurae, di cui in Zoldo abbiamo prova dell’esistenza, nell’ambito del maso di Levazono (pur non nominato), presso Dozza, dal doc. XII del libro sul Medioevo del dott. Monego (p. 147), che l’abate Francesco Pellegrini data al sec. XII, quindi, per ipotizzare una data, al 1150, comunque all’epoca della prima documentazione (1185) della chiesa di San Floriano, prima chiesa di valle, tra l’altro, geograficamente confinante. Il passo che ci interessa qui dice: «Unam clausuram dedit que iacet iusta Dozam». La proprietaria non è zoldana, ma bellunese, la nobildonna (quindi di una famiglia di vassalli del vescovo conte) Palma de Castello; i beneficiari del lascito testamentario non sono zoldani ma i sacerdoti della cattedrale (la chiesa vescovile) di Belluno. Significativo che la nobildonna possedesse (e donasse agli stessi) pure «unum pratum in Zopedo, unum pratum in Valzela». I vassalli bellunesi, pertanto, avevano proprietà anche in territorio cadorino, a meno che allora quello stesso territorio (Zoppè) non fosse ancora chiaramente cadorino ma, secondo un possibile criterio geografico, bellunese, in quanto convergente, dal punto di vista idrografico, sul bacino del torrente Maè. Non ben osservato finora, a livello di studiosi, quel «unum pratum in Valzela quod vadit in rodolo cum prato in Desentarii». Non mi azzardo in alcuna ipotesi, solamente osservo che Valzela potrebbe derivare da vallicella, «piccola valle», ma fors’anche essere un nome contratto composto da Val e zela e sappiamo che, sempre vicino alla pieve di San Floriano, c’è la località di Cella, in ladino locale Žéla.

Di una clausura in Zoldo parla pure un documento [da me pubblicato nella «Lettera (post)pasquale del 22 aprile 2009] del 7 marzo 1336, cioè di quasi due secoli dopo. Scritto Furni de Pecollo, «nel forno di Pecol», accenna all’affitto di una «clausuram jacentem in Furno de pecollo».

Sapendo che il ronch di Graffedera (Estimo settecentesco del capitaniato di Zoldo) era un semplice prato, tra l’altro di poco valore, e non un campo, mentre le clausurae erano per lo più zone coltivate ad orti e frutteti, devo concludere che clausurae non erano una latinizzazione del termine ronchi, i quali eventualmente venivano latinizzati con ampla. Nel libro del Monego clausura è tradotto come «podere recintato».

E abbiamo così una gerarchia di «strutture agricole»: si va dal generico una petia terrae, a un concollum (che non riesco ben a capire e mi fa pensare al cogùl, ad un promontorio, cocuzzolo), ad un amplum, al pratum, alla terra aratoria, al campum, alla clausura, alla curtis, per finire con la struttura più complessa o meglio completa, quella del mansum, a volte detto casale, quando il riferimento sia più ai proprietari che al loro podere. Il roncare e il cercenare sono a livello del disboscare, quindi attività della primissima fase della colonizzazione di un territorio, mentre la costruzione delle clausurae o cesure presuppone l’uso agricolo di un’area già da un tempo relativamente prolungato, e l’esistenza nelle vicinanze di una casa per abitazione stabile, cioè di un maso. Il sistema della colonizzazione è proceduto, in tal modo, per costituzione giuridica di aree in masi, dati in gestione, dietro certa quota pattuita, a chi ne avesse avuto interesse e, in alcuni casi, divenuti di proprietà di quanti prima erano o semplici gestori o possessori a titolo enfiteutico (automaticamente rinnovabile ogni 29 anni, quindi molto più garantito). Costituita «sulla carta» l’area del maso, all’interno dell’area giurisdizionale e di proprietà del vescovo conte di Belluno, il gestore avviava le varie attività sopra accennate, dal disboscamento alla coltivazione sempre più approfondita ed estesa dell’area. Per comprendere meglio il suo procedere, sarebbe interessante fare un confronto tra la terminologia e le misure agrarie usate nel nostro Medioevo e nei suoi documenti e quelle d’epoca o civiltà romana/latina, poiché già in passato ne abbiamo trovato dei riscontri, relativi all’unità abitativa del maso originario di Coi. Nel doc. 1190 Monego (o.c., p. 146) accenna, ad esempio, alla «zoia de terra» di un maso a Cavarzano, alla periferia di Belluno, ora divenuta un quartiere di quella città.

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2) La nobildonna Palma de Castello forse era la proprietaria, essa stessa, di un maso, quello di Levazono, visto che lascia in eredita «unam clausuram que iacet iusta Dozam», cioè in un’area di tale maso e non poteva esservi clausura senza riferimento a un maso o ad un forno fusorio, cioè ad una proprietà privata ricevuta per investitura vescovile, dato che la clausura è un’area specifica di un maso. Il fatto che il documento non accenni al maso, è dovuto solo al fatto che elenca ciò che la de Castello concesse per lascito e non ciò che possedeva in generale.

Del resto, la prima documentazione esplicita d’un maso in Zoldo si sposta ben poco da Dozza e da Levazono, in quanto si riferisce a Calchera, cioè a poche centinaia di metri di distanza, oltre la chiesa di San Floriano e quel possibile Žéla del documento della de Castello; area anch’essa, tra l’altro, interessata al maso di Levazono, che circondava la proprietà della chiesa di San Floriano su tre lati: est, nord e ovest, da Fedele-Dozza a Casal a Cella e Calchera. Si tratta di un testo del 1170 o 1180 (circa), riportato da Monego (op. cit., p. 137). Dice: «Domina Bastanzia disposuit pro remedio anime indicavit mansum unum in Zaudo ecclesie videlicet quem posidebat barabola matris et viri […] quod fuit mansus iuxta Calcariam». Il più antico maso di Zoldo, pertanto, è un maso ancora in fase iniziale, senza riferimento ad un caseggiato stabile o villaggio ma solo ad una località ristretta. Questo ci fa intuire l’«iuxta Calcariam», come, nel caso precedente, ci lasciava intuire l’«iusta Dozam»; solo che lì si parlava di una clausura, per quanto estesa, qui di un vero e proprio maso, per quanto poco esteso. Il fatto, poi, che fosse vicino ad una calchera, ossia ad un forno per la fusione della calce, e queste erano (e sono) sempre costruite ai margini del bosco, ci fa capire che nel sec. XII, per quanto lì vicino fosse sorta la chiesa di San Floriano, l’area era ancora boscosa e quasi disabitata. Ed è coinvolta, ancora una volta, una famiglia di Belluno e non una di Zoldo, e il vescovado bellunese ne è il beneficiario.

Il secondo documento che accenna esplicitamente a masi in Zoldo, è il testamento, datato 5 marzo 1190, del sacerdote Villano, officiante (canonico) della cattedrale di Belluno. I soggetti pertanto, sono in ultima analisi analoghi a quelli dei documenti precedenti. Villano lascia alla medesima cattedrale (più che al vescovado) e ai suoi confratelli canonici (strutturati già in un capitolo, con un decano), quattro masi, dei quali «duo in Comitatu Zaudi, in vico Marasono; ut Ecclesia cum Canonica habeat et teneat eos post decessum suum pro anima sua». È un documento importante, pur nella sua stringatezza, per vari motivi. Villano accenna a Zoldo quale contado, seguendo lo schema della bolla di papa Lucio III di pochi anni prima (del 18 ottobre 1185) nella quale il Papa aveva concesso al vescovo conte di Belluno, esseno egli rivestito di entrambe le cariche, entrambe le giurisdizioni, ecclesiastica (plebem et c.) e civile (comitatum et c.): «Plebem Sancti Floriani de Zaoldo cum capellis suis, et Comitatum ipsius cum jurisdictione et districto in pertinentiis ipsius Zaoldi». Pur essendo sacerdote, ma trattandosi di un suo bene personale e non di uno ecclesiastico, Villano nel testamento non fa dunque riferimento alla pieve ma al contado.

Un terzo documento che accenna esplicitamente a masi zoldani è del 23 agosto 1200 (cfr. Monego, op. cit., pp. 148-149). Si tratta di una dichiarazione di Guidolino de Busais a conferma delle donazioni, fatte dallo zio canonico Salvagno, a favore della chiesa di Santa Croce di Campestrino, presso Belluno. Tra i lasciti vi è un maso a Mareson di Zoldo: «Fecerunt finem et datam et refutationem dicto Widolino de omnibus racionibus, actionibus, quas ipsi habebant nomine dicte ecclesie de Campistrino et possidebant in duobus mansis quorum unus iacet in Marasono et regitur per Zanucium». Il documento ci dà, come si vede, anche il nome del rector mansi, un Giovanni detto amichevolmente Giovannuccio, ed è il nome più antico, a noi giunto, di uno zoldano. Ci dà pure l’indicazione storica preziosa che il maso era collegato con la chiesa bellunese di Santa Croce, tant’è che nella memoria collettiva giunta fino a noi si dice, confondendo però un po’ le cose: «Una volta il paese di Mareson si chiamava di Santa Croce». Ho detto: «Confondendo un po’ le cose», ma forse non è proprio così, forse (la questione è che non abbiamo documenti a comprova) il maso, poi villaggio, aveva assunto effettivamente quel nome, quello della chiesa di cui era proprietà.

Appena dieci anni prima, il documento del 5 marzo 1190 aveva parlato di due masi «in vico Marasono», ora si parla solo di uno. Non è mai successo che dei masi si siano fusi, eventualmente si sono uniti formando una villa o villaggio (un’unione di servizi, non tanto di unità amministrativa dei beni collettivi iniziali), ma restando divisi, mentre sono frequenti i casi contrari, nei quali da un maso ne sono sorti vari (dall’unico di Pianaz, ad esempio, ne sono sorti – sia pur solo de facto e mai de iure – ben cinque, quattro a Pianaz e uno a Coi). Sappiamo che il toponimo Marason (non Mareson, come si dice ora) indicava un’area vasta, dall’attuale villaggio di Mareson fino a Coi e a Costa. Nella pergamena di Pompeo Livan del 10 aprile 1366 si parla di «de Collis Maraxoni» (mio comunicato n. 1054 del 23 maggio 2013) e nell’accordo del 7 luglio 1402 (cfr. Monego, op. cit., pp. 249-251) di «Bartholomeus de Costa de Marasono». E nell’atto giudiziario del 9 ottobre 1331, nell’ambito della lite tra masieri e ferratari, si trova scritto: «[…] pontium et viarum qui nunc sunt devastati incipiendo in Forno Çaudi eundo ad Furnum Donti per viam directam de subiectis et de dicto Furno Donti ad Furnum Scarfedere ad le Fuxinas in Maraxonum et ad Furnum Pecolum vel de dicto Furno Maraxoni vel Pecoli usque ad Paluam Faveram». A differenza delle altre località, eccetto Forno di Zoldo, non è scritto ad Maraxonum, o ad Furnum Maraxoni, ma in Maraxonum, intendendo riferirsi ad un’area e non ad un villaggio come lo pensiamo noi oggi; il locale forno fusorio prende il nome da quest’area e non dal villaggio; area e non villaggio è considerato pure Forno di Zoldo e, infatti, sappiamo che nella sua villa comprendeva pure aree di Astragal, come spiegherò. Si noti, poi, che tale area, il Maraxonum, va da le Fuxinas ad Furnum Pecolum, comprendendo Pianaz, oltreché gli accennati Coi e Costa (quindi anche Brusadaz), sempre secondo una traiettoria confinaria est-ovest e non nord-sud, confermata dall’investitura del 18 giugno 1406, che assegna al forno fusorio di Mareson ancora una volta l’area, almeno boschiva, fino a Costa compresa. È pertanto impossibile non vedere come i due masi del 1190 fossero, pur detti entrambi «in vico Maraxono» (espressione che, tra l’altro, sotto spiegherò e mostrerò nella sua erroneità), uno effettivamente di Mareson, che si sarebbe ben presto trasformato in forno fusorio (lo era già nel 1331), e uno a Pianaz, che sarebbe sempre rimasto maso, addirittura in contrapposizione a quello di Mareson. Ebbene, tutto porta a credere che, restringendosi il toponimo Maraxono a indicare solo il villaggio e non più l’area, solo il forno fusorio abbia conservato a sé, come maso principale, quel nome, venendo ad essere più pratico chiamare il secondo in base alla sua collocazione geografica ristretta, sul pianaž«piano dissestato», e quindi Pianaz, Planacium. Ma nella fase intermedia, quando a Mareson non c’era ancora un forno ma l’antico maso retto da Zanucium, cioè nel corso del sec. XIII, il nome di Maraxonum può ben aver continuato ad indicare l’area di entrambi i masi (di Mareson attuale e di Pianaz) e persino le aree da Coi a Costa, pur restringendosi sempre più nel significato, e i due singoli masi potrebbero essersi chiamati, essendo il Maraxonum ancora nome di tutta l’area, maso di Santa Croce e maso di Pianaz.

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3) In tutti e tre i casi documentati (Dozza, Calchera e Mareson due volte) vediamo che la colonizzazione di Zoldo procede, nel XII secolo, su interessamento diretto di alcune famiglie vassalle del vescovo conte e dei sacerdoti della cattedrale (chiesa vescovile). Non si ha sentore di alcun, pur minimo, atto di forza o intervento (conquista) militare da parte di Belluno. Tutto procede in modo molto semplice, tramite contrattazioni di natura privata. Il fatto è che alcune famiglie di Belluno, le più benestanti, sentono il bisogno di espandere ulteriormente le loro proprietà, di valorizzare le loro greggi e di fare degli investimenti terrieri; Zoldo appare ai loro occhi una valle ancora vergine, che corrisponde alle loro attese e si attivano per piantarvi dei masi, che affidano a dei coloni qualificati, in grado di reggerli e farli rendere. Per portare avanti l’iniziativa, tali famiglie avevano certamente bisogno dell’avvallo del signore territoriale, cioè del vescovo conte, e, poiché tali famiglie erano quelle «tirate su» dal vescovo conte stesso, in quanto sue ministeriali o vassalle, egli aveva tutto l’interesse di agevolare e legalizzare queste loro richieste, tra l’altro perfettamente legittime. Famiglie nobili e conte vescovo erano consapevoli che, abitando stabilmente in Zoldo, una valle impervia, quei coloni dovevano essere in qualche modo agevolati e perfino assistiti, pena il vedersi bloccata fin da subito l’iniziativa della loro espansione terriera in valle. Nella scelta dei coloni ebbero perciò la saggezza di coinvolgere quanti già, in una fase precedente (spontanea e non pianificata), erano giunti a lavorare in Zoldo dal Cadore, da Chiapuzza a Vinigo, minatori perlopiù della impervia miniera di Valle Inferna, sopra Fornesighe. Essi portavano nel cuore la fede cristiana e la devozione ai Santi dei loro villaggi di provenienza: San Floriano di Lorch (come a Chiapuzza), San Giovanni Battista (come a Vinigo), San Vito (come, appunto, nel paese omonimo). A parte il Battista, gli altri non erano Santi popolari nel Bellunese, eppure – per agevolare quei Cadorini, nel momento in cui accettavano di diventare loro rispettati coloni – vescovo e famiglie nobili di Belluno, non ebbero difficoltà a riconoscere San Floriano come patrono di Zoldo, San Giovanni Battista come compatrono e San Vito quale patrono di Fornesighe.

Da tutti e tre i documenti risulta chiaro che la colonizzazione iniziale, seguita a quella spontanea e disorganica ad opera di alcuni Cadorini, aveva questo carattere pacifico, di normalissima valorizzazione di una zona disabitata, ad opera e merito di chi ne aveva l’interesse e la possibilità di attuarla. Risulta chiaro, per secondo, che era iniziativa privata, pur affiancata e avvallata dal signore, il vescovo conte. Risulta, per terzo, che non aveva il minimo riferimento all’attività di ipotetici forni fusori, né che sia stata indotta da persone interessate all’attività metallurgica. E risulta, per quarto, che procedette per masi, nient’altro che per strutture agricole, affiancate e supportate dall’assistenza religiosa, allora ritenuta irrinunciabile, con la costituzione di una chiesa e di alcune (almeno due) cappelle dipendenti da essa, delle quali una è certamente quella di San Nicolò, nei pressi dei due masi di Mareson. Questa la linea convenuta tra vescovo conte, sue famiglie nobili e Cadorini (o non Cadorini) che diventavano reggitori dei masi: permettere la costituzione legale e di fatto di vastissimi masi di proprietà privata, ritagliandoli nella proprietà vescovile complessiva, affiancarli con una chiesa o cappella che il vescovo stesso avrebbe dotato di altri suoi beni, affidare la gestione permanente delle cappelle (intitolate a Santi amati dai Cadorini o, comunque, dei reggitori dei masi) agli uomini stessi dei masi. Un’ottima soluzione, vantaggiosa per tutte e tre le parti in causa!

Ci risentiremo!

don Floriano Pellegrini

Nella foto: Coi: legnaia di una famiglia del casato Rizzardini Mariét. La copertura del tetto è ancora, come in antico, a scandoletta.

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