La mónt, i suoi quattro livelli, gli ampla e la vergognosa distruzione degli ampla della mónt dai Coi

La mónt, i suoi quattro livelli, gli ampla e la vergognosa distruzione degli ampla della mónt dai Coi

Nella foto: Forno di Zoldo e i paesi circostanti (sullo sfondo Dont e Foppa) negli anni ’50 del Novecento. 

Caro Sante, m’ha fatto piacere leggere, dalla mail di ieri, che convieni su quanto avevo cercato di riflettere e spiegare sul significato del termine ladino ronch: non essere tale termine «sinonimo di clausura (in dialetto zoldano cesura), [perché] il ronch è un pezzo di prato diboscato all’interno della proprietà collettiva, la cesura un pezzo di terreno al di fuori della proprietà collettiva, recintato e utilizzato a vare (maggese) o campi», quello che sono i frutteti e, in piccolo, gli orti recintati a protezione dai malintenzionati e dagli animali selvatici, notturni e diurni.

In quanto agli ampla, termine traducibile alla lettera «allargamenti, ampliamenti», può ben essere, come scrivi, che tale termine già nel Medioevo sia stato utilizzato (uso il condizionale perché non ho documenti per provarlo) per indicare «terreni disboscati, ricavati ai margini della proprietà collettiva, e uniti [poi] alla proprietà privata coltivata». Si tratterebbe o si sarebbe trattato, in questo caso, di più o meno vaste (ma mai vastissime) sottrazioni alla proprietà collettiva, per arricchirne una privata contermine; e questo sarebbe avvenuto in maniera più o meno concordata ma, comunque, in definitiva accettata poi dalla comunità, per quanto proibito dagli Statuti di Belluno, dai quali Zoldo dipendeva (cfr. sentenza del 1398), i quali imponevano esplicitamente ai marighi (cfr. «Rubrica sui Marighi e Saltari» citata più sotto) di impedirlo.

Il verbo ampliare era applicato, è vero, non solo al miglioramento dei beni collettivi, ma anche di quelli privati. Luigi Lazzarin ricorda, ad esempio che nel 1464 l’Ospedal di San Martin venne dato in gestione con la clausola «di curar i prati per bene ed i campi coltivarli ed ingrassarli ed ararli come si conviene e piuttosto ampliarli che [s]minuirli […] mantenere in acconcio le strade ed i ponti soliti e così i stroppi intorno ad essi beni» (in quanto a stroppi, o palizzate, ne abbiamo un cenno, di valore generale, anche nella cosiddetta «Carta di Regola» del 1518). Poi, nella rinnovazione del contratto d’affitto del 28 maggio 1634, si ripeteva ancora: «Siano tenuti, & obbligati a ben tenir, & lavorar essi Beni, cioè li Campi arrarli, coltivarli, voltar li Terreni, & li Pradi curarli, e netarli, mantenendo li Stroppi, & cadaune le ragioni di detta Chiesa, & piuttosto ampliarli, che sminuirli». Mai, però, poteva essere considerato ampla, in senso legale, un terreno reso tale per ampliamento a danno del patrimonio collettivo.

Ammesso tutto questo, e pur sapendo che in vari casi questo è effettivamente successo, per quanto illegale, non posso però fare a meno di notare che nel Medioevo, ampla aveva un significato molto diverso e ben preciso, che è giusto sapere. Risulterà, infine, che lo spazio che noi adesso definiamo genericamente la mónt, conoscendo sempre meno i nomi delle sue singole località, finché la vita dei nostri paesi era agricola era pure strutturato (tale spazio) secondo uno schema operativo, un calendario dei lavori e soprattutto una cultura o forma mentis tutto sommato simili, per non dire identici, a quelli dei nostri antenati, da allora, dal Medioevo in qua.

Dai documenti appare chiaro che ‘na mónt, ogni mónt, era osservata secondo quattro dimensioni fondamentali, in latino chiamate ampla, pascula (o pascua), nemora, capula (dal verbo latino capulare, «travasare, passare da una parte all’altra, mettere in collegamento una parte o una realtà con un’altra, legare»); dimensioni che, per semplificare al massimo, potremmo tradurre con quattro sostantivi: fieni, pascoli, boschi, strade. Osserviamo dunque i documenti.

Premetto che non ho trovato il termine, né al singolare né al plurale, nei documenti di cui alle diciotto pergamene (dal 1331 al 1670) possedute dal sig. Pompeo Livan e da me pubblicate con il Comunicato n. 1054 del 23 maggio 2013; ma si tratta di loro traduzioni in italiano mentre bisognerebbe vedere i testi in latino. Ampla compare invece in alcuni (non molti) dei documenti pubblicati dal dott. Pietro Monego nel libro In Val di Zoldo nel Medioevo.

La prima citazione compare nell’investitura che, il 13 agosto 1337, il vescovo conte di Belluno e Feltre, Gorgia de Lusa, rilasciava ai principi boemi Carlo e Giovanni. Vi leggiamo, infatti, tra le altre cose:

In Christi nomine Amen, Anno eiusdem Nativitatis MCCCXXXVII, Indictione quinta, die decima tertia Augusti, in ecclesia monasterii Sancti Spiritus, prope Feltrum, praesentibus nobilibus militibus Joanne de Lippis, Phalconcino Pochstali de Egna de Villandres, Raspo de Draj, Stephano Leonen. […] cum jurisdictione in ipsius Valsuganae potestaria, et jurisdictionem comitatus Caesanae, capitaneatum Agurdi cum suo districtu et jurisdictione, Gastaldias, et Marigantias qualibet tam Episcopatus Feltri, quam Belluni, Mudas et pedagia livellos, affictus, redditus et proventus, aquas et aquarum decursus, cum summitatibus montium, nemoribus, capulis, pasculis, et ampliis Episcopatus Feltri et Belluni et districtus […].

 

Ho riportato qui la parte iniziale di tale documento per far notare la presenza di alcuni milites ovvero l’importanza che si dava loro e, quindi, evidenziare quella che poteva avere anche il miles Federico degli Azzoni, proprietario dei masi di Mareson (Santa Croce?) e Pianaz. Vi è poi un dettagliato elenco di cariche sociali (si nominano anche i marighi) e forme di diritti e beni immobili, in grado di garantire «livellos, affictus, redditus et proventus». Si elencano le acque e i loro corsi (quali prima ricchezza d’un territorio), e le mónt, fin dalle sommità o creste, «cum nemoribus, capulis, pasculis, et ampliis», «con i boschi [=il soprassuolo], le strade di accesso e transito, le aree di pascolo e quelle per far fieno, ossia quelle che noi chiamiamo, una volta divise in parti segative, colendìei.

Di ampla parla, nel 1394,  l’annotazione vescovile dell’investitura del forno fusorio di Fusine o, meglio, «de furno et aquisto furni de la fusinis de Schassodera», ricco di molte strutture funzionali, ossia «cum omnibus suis fusinis, medalibus, carbonilibus, schotteriis, domibus, hedificiis, molendinis, nemoribus, amplis, valdis, capulis et pasculis ipsi furno spectantibus et pertinentibus de iure et consuetudine».

La sentenza del 7 gennaio 1398 nomina gli ampla ben dieci volte.

L’investitura del maso dell’altare di San Mattia, a Pianaz, del 5 ottobre 1535 cita gli ampla ricordandoli già menzionati nell’investitura del 14 marzo 1411 e ricorda che nel 1411 l’altare (inserito nella cattedrale di Belluno, a cui l’aveva lasciato il miles Federico degli Azzoni) possedeva «in villa de Planazo […] unam domum cum Stalis, Stabulis, Curtis, Curtivis, et hortis simul se tenentibus cum terris arativis, prativis, boschivis, amplis, silvis, et sortibus silvarum existentis». Prosegue, poi, ribadendo che anche nel 1535 «suprascripti consortes possint, et voleant, teneant, et debeant monticare, et pascere cum suis Animalibus, extra prata propria, super monte de Goima, et amplis, nec non tempore debito secare, et  omnia, et singula alia facere in dicto monte, quae alij homines dicti filii (?) faciunt prout constat predicto Instrumento». In questo passaggio, decisivo, si dice con molta chiarezza che gli ampla non rientrano tra i beni privati, ma sono «extra prata propria». Più chiaro di così!

Per ampla si intendevano, in definitiva, i «prati per la fienagione collettiva, situati in una montagna pascolativa». L’interpretazione è certamente esatta, poiché fatta propria dagli Statuti di Belluno, che, ad esempio alla «Rubrica sui Marighi e Saltari» (II, 46, B) affermano e ordinano:

Statuimus […] quod cuilibet marico districtus Belluni licitum sit ad voluntatem et consensum sue regale viçare et bannire nemora, pascua et prata pertinencia ad suam regulam et eciam constituere saltarium seu saltarios de conscilio seu voluntate hominum dicte sue regule pro custodiendo et accusando seu manifestando illos qui intraverint et buscaverint seu pasculaverint in dictis nemoribus, pratis et pasculis.

 

Nella parte finale del disposto statutario compaiono, infatti, tutte e quattro le dimensioni fondamentali di una mónt: gli ampla, i pascula, i nemora e i capula. Capula è richiamato dall’espressione «qui intraverint», nemora e pascula sono termini espressamente ripresi e al posto di ampla vi è il termine prata (all’ablativo pratis).  Ampla sono, pertanto, prata; ma non prati privati, bensì quelli rientranti nel patrimonio indiviso e collettivo di una mónt.

Essendo ogni mónt così strutturata (in ampla, pascula, nemora, e capula), pure i diritti fondamentali dei consorti erano quattro: l’accesso e il transito, per sé e per i propri animali, l’uso del soprassuolo e soprattutto del legname (per i noti tre scopi del riscaldamento, del rifabbrico e del legnatico), il pascolo e l’utilizzo dell’erba oltre il pascolo, ossia lo sfalcio.

L’atto di vendita ai nobili Bressa, da parte dei Braga, di metà del monte della Grava, il 26 gennaio 1505, riporta un lungo elenco di diritti, di signoria e d’uso, su tale montagna pascolativa. Dice, ad esempio:

[…] cuiuscumque, quae, et quas habent, habere possent […] et viderentur habere ius dicta meditate dicti montis, et iuribus, et pertinentijs suis cum suis iuribus cum introitibus, exitibus, viis, anditis, cessis, fossatis, acqueductibus, piscationibus, buscationibus, capulis, pasculis, marigitio, honore, et signoria, et generaliter cum omnibus, et singulis suis iuribus dictae medietatis montis, et iuribus, ac pertinentiis suis a caello usque ad abissum integre spectantibus, et pertinentibus cum plena protestate, arbitrio, et baillia dictam medietatem dicti montis, et iurium, et pertinentiarum suarum cum suis iuribus vendendi, donandi, obligandi, livellandi, pignorandi, infeudandi, pro anima, et corpore iudicandi, omnemque et totam suam volunptatem, et utilitatem inde faciendi absque contradictione alicuius personae; dicentibus, et confitentibus dictis venditoribus se dictam dimidiam montis iurium […].

 

La stessa cosa, per analogia, deve essere intesa per le proprietà dei masi, solo gravate, eventualmente, da un canone di livello, qualora non fossero stati liberi masi ossia masi in proprietà assoluta, e quindi giuridicamente nella medesima posizione dei beni dei Braga e poi dei Bressa (si osservi che l’atto parla persino di baillia, ossia giurisdizione di bailato o baliato).

I diritti o quattro livelli di diritto fondamentale erano regolati e poi gestiti in modo comunitario, quasi solo consuetudinario e quindi non scritto in laudi, ma pur sempre avente pieno valore giuridico. In un proclama del podestà di Belluno, del 15 maggio 1625, si dice:

De mandato del Spettabile Signor Vicio Capitanio, essecutivamente di lettere di Sua Signoria Illustrissima, ad instancia delli Regulieri delle Regule da Pecol, Mareson, Pianaz, et Consorti de Rizzardin dai Coi si fa publicamente intendere, et espressamente comette, che non sia alcun, di che grado, stato, et condizion esser si voglia che ardisca di fatto, et propria autorità pascolar con bestiami di che sorte esser se voglian forestieri nelle Montagne di questa giurisditione nominate Castellin, Sot Civita, Calalt, et Baindors, eccettuati solamente gl’interessati, che hanno raggione, et giurisditione in dette montagne. Li qual Comuni, et huomini delle Regole predette possano, et habbino autorità di pascolar con li proprij Bestiami, escludendo sempre in ogni caso i Bestiami forestieri. Non dovendo né anco alcuno d’essi interessati metter mano nel segar feni, se non saranno prima di commun consenso degli interessati tra loro divisi, iuxta la consuetudine di detti Communi in dette montagne […].

 

Si osservi soprattutto il disposto delle ultime righe, che ribadisce il valore normativo della consuetudine collettiva.

Le controversie tra maso e maso o, villa e villa, Regola e Regola, e di masieri, vicini e regolieri con i ferratari avvenivano tutte per uno dei quattro livelli d’uso o, come si diceva allora, d’utile dominio. Quando, ad esempio, le strade della mónt erano mantenute in ordine dai masieri, secondo quanto tra essi convenuto e tramandato, era ovvio ch’essi vedessero con disgusto il passaggio, con i loro animali da traino, di ferratari che non avevano avuto accordi con loro né contribuito a tenerle agibili. Ed era persino provocatorio l’atteggiamento di sfida dei ferratari, che cercavano di obbligarli per vie legali a contribuire al mantenimento delle strade di esclusiva pertinenza e utilità dei ferratari stessi. Ed era comprensibile, per fare un altro esempio, la lite per il pascolo in Darè Dof, per diritti  promiscui di pascolo o, per fare un altro esempio ancora, quella dei consorti della mont di Sot Pelf per impedire lo sfalcio ai non consorti.

Tra ampla nel suo senso più vero della parola, ossia «prati per la fienagione collettiva, situati in una montagna pascolativa», ed ampla come terreni aggiunti ai propri, privati, sottraendoli a quello collettivo confinante, vi era un uso del termine ampla con un senso che potremmo dire intermedio e che, secondo il mio ricordo diretto, era fino a pochi decenni fa quello più comune. Era il senso che le persone ch’hanno vissuto come me la custodia del bestiame, tenevano presente quando parlavano tra loro. La mónt, infatti, non era per loro (per noi) quello spazio semi-selvaggio e bucolico, misterioso e sconosciuto, che certa letteratura dall’Ottocento (col Romanticismo) in qua ha fatto credere ai cittadini che fosse e le maestre di Stato, imbevute di quella cultura cittadina, insegnavano ai ragazzi di campagna e di montagna. La mónt era, al contrario di quanto affermato da tale visione romanzata, un insieme di spazi  ben conosciuti dagli abitanti dei paesi, nella loro strutturazione e nella loro produttività, nei loro punti di forza e di debolezza; era un luogo vissuto costantemente, in tutte le stagioni dell’anno. Ed è mio dovere ribadirlo, pur sapendo che, frequentando i boschi e le montagne, nasce spontaneo un certo romanticismo e quello spirito mitificatore di cui ho parlato, anni fa, in uno scritto (e tale spirito ha imbevuto profondamente anche la mia anima). Nelle investiture quegli spazi (ampla, pascula, nemora et capula, e i termini ad essi analoghi) non erano indicati oltre o fuori dal maso (o dal forno fusorio) ma quali sue parti integranti. A noi oggi fa un po’ specie e ci sorprende leggere di boschi nel maso, perché abbiamo ristretto il senso del termine maso al tabià-stalla, al tabià-stalla-abitazione e al piccolo spazio circostante (sento perciò ogni tanto qualcuno che parla di un tabià chiamandolo maso: un assurdo!). Nel Medioevo e fino a pochi decenni fa in modo collettivo, per maso si intendeva, e anche oggi noi dobbiamo intendere per un recupero di esattezza culturale, tutto il territorio oggetto d’un’investitura, all’interno del quale la casa d’abitazione della famiglia investita, il tabià e la stalla saranno pur state (e sono) il riferimento visivo centrale ma, in definitiva, solo una piccola parte del tutto complessivo.

Ed è proprio perché le mónt erano così intese, che erano spazi in tutto e per tutto sotto controllo collettivo e spazi pianificati, anzitutto con la definizione esatta, se del caso anche tramite delimitazione con muretti, fossati (come sotto il pian delle Mandrate) o siepi e steccati (ricordati dalla Carta di Regola del 1518), di quali fossero collettivi e quali familiari (il riferimento era ed è, in ogni caso, al fuoco-famiglia, non all’individuo, anche se un fuoco-famiglia poteva e può essere costituito da un solo individuo).

Per secondo, sia le proprietà collettive come quelle private dovevano essere rese accessibili, con la costruzione di strade pedonali, mulattiere (per il transito di asini, muli e cavalli) e, ove possibile, carrarecce (per il transito dei carri, soprattutto con il fieno fatto in alta quota).

Individuati gli eventuali spazi per una fienagione collettiva, ossia i colendìei, ne dovevano essere individuati altri, di minore estensione ma adatti al buon funzionamento del pascolo stesso; e anch’essi erano degli ampla nella proprietà collettiva generale della mónt. Non è pensabile, infatti, che il bestiame possa vagare a caso o per tutta la giornata, ma deve seguire traiettorie e tempi che abbiano una logica, impostata quantomeno sull’alternanza dei posti («Andóe esto andat ti inìer?», chiedavamo al pastore del giorno prima, per imboccare poi un’altra traiettoria, ovvero una delle due: in dentro, verso le Mandrate, o in su, verso Sopelf e Piera dal Bosch). In questo spostarsi si aveva bisogno di strade per momenti di semplice passaggio, di prati anche di poca qualità e in mezzo alle abetaie per un «pascolo vago» nei quali (prati) la mandria potesse brucare tranquilla; ma si aveva pure bisogno di ampla o pianori verso i quali far convergere e nei quali far sostare il bestiame. Ecco il terzo significato della parola ampla, non molto giuridico ma pratico: «pianori verso i quali far convergere e nei quali far sostare il bestiame durante una giornata di pascolo». Si impostava la giornata tra spostamenti, pascolo tra le abetaie e soste nei pianori, poi ancora spostamenti, pascolo e sosta.

Si osservi con grande attenzione: questi pianori, per quanto magari favoriti dalla natura,  non erano creazioni della natura, ma nostre (dei vecchi pastori). Erano come dei polmoni costruiti nel bosco dalle mani dell’uomo, per il pascolo e per il bosco stesso, che sarebbe cresciuto più sano, e venivano incontro alla necessità di non lasciare la mandria per tutto il giorno tra le abetaie e farla uscire dalle ombre e dall’umidità, o dall’eccessiva arsura, per farla sostare al sole e consentire alle vacche di distendersi sull’erba a ruminare, come sempre fanno almeno nel primo pomeriggio, e anche per riposare, dopo chilometri di transito, magari per vacche già vecchiotte o gravide. I pianori servivano a questo, gli ampla di cui parlano i documenti antichi servivano a questo. Per quanto all’apparenza creati dalla natura, come dicevo, e creduti tali dai turisti, dagli amministratori ignoranti e tendenziosi e dai malintenzionati, questi pianori erano vere e proprie «strutture agrarie» inventate dalla saggezza degli abitanti dei masi.

Quando, sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, il Comune di Zoldo Alto, d’accordo con i Forestali, per vera e propria ritorsione (perché come villaggio di Coi ci eravamo opposti alla costruzione d’una strada verso Palafavera, all’interno della mónt) piantò centinaia e centinaia di piccoli abeti (tra l’altro, un albero che rende improduttivo il suolo; insomma un vero dispetto!) nei pianori della nostra mónt (cose da galera: il Comune ne era solo l’amministratore e non il proprietario, ma allora si sentivano onnipotenti e protetti da politici altrettanto banditi), era come ci volessero uccidere, ucciderci nella nostra identità secolare, e costringere ad abbandonare il pascolo. Maledetti ipocriti dicevano che potevamo andare a pascolare da altre parti, e all’apparenza avevano ragione; dicevano che le mucche erano poche e bisognava portare avanti il progresso dei paesi e non restare al Medioevo. Noi comprendevamo benissimo che, togliendoci i pianori, circondandoli di filo spinato a protezione delle piantagioni di abeti, rompevano alla montagna quell’equilibrio vitale che era stato costruito da secoli; che, come per un incendio, in pochi anni sarebbe stato distrutto il «Palazzo della Mónt» e si sarebbe distrutta la sua famiglia di esseri viventi collaborativi e di vicendevole supporto. Soffrivamo perché la nostra amata mónt, la Mónt, e noi con essa e noi nel suo grembo, eravamo violentati, senza poterci difendere!

E, infatti, riuscirono nel loro intento selvaggio e diabolico, a spezzarci l’osso del collo, e le braccia, per il proseguimento dell’attività agro-silvo-pastorale qual era sempre stata intesa, praticata e, si può ben dire, in essa (e non solo: di essa) si fosse noi vissuti e si stesse vivendo e si volesse continuare a vivere, e si avesse avuto tutto il diritto, come singoli e come comunità, di farlo. Vittime di tanta violenza, di tanta indifferenza legale e di uno Stato latitante, inconsapevole del tesoro di civiltà che ha nelle montagne e nella cultura dei montanari, per non amare né quella né quelli, abbiamo però ancora una grande forza, in noi, nel nostro spirito: la consapevolezza, il sapere ciò che era, ciò che volevamo, ciò che siamo e ciò che vogliamo; ciò che nessuno ci regalerà ma ci riprenderemo da soli, fino in fondo, gridando al mondo i nomi di chi ci ha fatto del male. E sappiamo che quelle ombre antropomorfe, quel selvaggio travestito da progresso ch’essi adorano, sarà distrutto, pezzo a pezzo; sappiamo osservarli dritto nel cuore e comprendiamo la loro abissale piccolezza. Li vinciamo con la parola, li combattiamo con la parola consapevole, con il disprezzo più totale. Non siamo degli arresi, degli intimoriti, dei rassegnati: siamo i loro viventi nemici e li combattiamo, per rimettere in piedi a noi stessi la nostra civiltà. Ché, se a loro non piace, possono starsene pure nelle loro luride ricchezze, a ripetersi le loro parole sciocche e ipocrite, mentre in noi sentiamo il canto e il gusto della vita semplice e vera!

don Floriano Pellegrini

Nella foto: Il tabià del Mas di Sabe.

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