Sul formarsi delle proprietà e dei diritti collettivi in alta val di Zoldo tra il XIV e il XV secolo: punti certi e ipotesi

Gli uomini e i secoli passano, lui è sempre là e sembra un giovanotto!

Caro Sante, […] m’ha fatto piacere leggere che anche l’Ufficio regionale allora incaricato della pratica per la ricostituzione legale delle Regole dell’alta valle di Zoldo fosse convinto che l’espressione «Coi Sancti Nicolai» si riferisse, nel documento del 1398 (quello più antico a loro riguardo), all’intera Regola Grande dai Coi e non solo, come qualcuno potrebbe pensare, all’attuale villaggio di Coi. Era una cosa che potevo ben sapere, visto che – di tale documento – era stata utilizzata copia autentica della copia d’epoca custodita nell’Archivio ora familiare, ma non ci pensavo più.

Non ho copia, né mai ne ho vista, dell’investitura del forno fusorio di Fusine, posto in località Scarfedera (Scarfedara e altre varianti), che pure da qualche parte dovrebbe esserci. Il prof. R. Vergani e la dott.ssa S. Miscellaneo hanno rintracciato l’annotazione originale scritta sui vecchi registri della Mensa vescovile, e l’hanno pubblicata nel 2016. Nella precedente lettera ho riportato per intero tale annotazione e fatto osservare, pur senza avere un documento a comprova, che i boschi di pertinenza di tale forno non potevano essere altro che quelli del Col Negre e di tutto il suo costone o dosso. Col Negre: a proposito di coi o colli, eccone individuato uno, dopo quelli di Mareson, culminanti sotto il (o: con il) Pelmo o Sas de Pelf (m. 3168), e quello, a se stante, di San Nicolò (m. 1494, se l’altitudine corrisponde alla chiesa). Poi, ripartendo dal Sas de Pelf, abbiamo il Sas de Formedal (m. 1968), il Col Grant (m. 1879), il Col Negre (m. 1771) e il monte Punta (o Ponta, m. 1952). Questi, dunque, coi loro precisi nomi i coi o colli da cui il nome d’area «Coi di San Nicolò»: Coi di Mareson, Col di San Nicolò, Col Grant e Col Negre.

La proprietà del forno di Scarfedara si estendeva però anche oltre il rù Sec, che delimita il Col Negre dal Ponta, per estendersi sulle pendici di questo. L’area boschiva su cui poteva contare tale forno fusorio era perciò notevole e questo spiega perché fosse – come hai scritto – un «forno molto importante, sicché l’affitto a livello era di 10 lire; era cioè cinque volte più importante del forno di Mareson, che aveva un affitto di 40 soldi (pari a 2 lire), e di quello di Pecol, che aveva un affitto di 32 soldi (pari a 1 lira e 12 soldi)».

Iral e gli altri masi situati sulle pendici del Col Negre (dall’alto al basso: mas de Sabe, mas de Zacagnin, mas de Iral e mas de rù Sec) erano perciò legati in modo vitale al forno di Scarfedera. E ciò risulta da tutto quello che la ricostruzione storica fa emergere, tra cui, come scrivi, «dal documento del 1328 nonché dalle vecchie strade mulattiere che collegavano direttamente Iral al forno, attraverso il vecchio ponte sul torrente Maè, detto “di Rutorbol”». Direi di più: il fatto che il forno fusorio sia stato indicato come «forno di Fusine» ci ha portati ad una prospettiva completamente fuori strada. Mi spiego: nella più antica citazione a noi giunta, quella del 1365, si parla di forno «de Sancto Nicolao de scarsadera», senza riferimento topografico a Fusine, mentre nel documento del 1394 si parla di «furno et aquisto furni de la fusinis de Schassodera cum omnibus suis fusinis […]». Come si vede, da prima il forno era indicato solo in riferimento alla chiesa di San Nicolò e al suo posizionarsi in Scarsadera, non c’era riferimento a Fusine, come invece avviene nel 1394. Le stesse fusine o officine, del resto, erano una realtà in riferimento al forno e non poteva essere, assolutamente, il contrario, che fosse il forno fusorio in riferimento a delle sue strutture di servizio e di lavorazione del ferro già fuso; il documento del 1394, infatti, ha significativamente il termine fusinis sia nel senso di toponimo (le Fusine), sia in quello originario di officine. E, per dirla fino in fondo, neppure in questo documento vi è un riferimento assoluto a Fusine, in quanto si parla di «la [dovrebbe essere le. N.d.R.] fusinis de Schassodera», per cui il toponimo finale è ancora Scarfedara e non Fusine; anzi: il testo evidenzia la subalternità di Fusine a Scarfedara.

Ebbene: il cambio di riferimento toponomastico, con l’aggiunta del riferimento a Fusine, aveva portato già allora a qualificare il forno come «di Fusine», mentre era nient’altro che «di San Nicolò» e, per essere più precisi, dei «Coi di San Nicolò», poiché tutti i masi coinvolti appartenevano (come ancora appartengono) alla Regola Grande dai Coi e non a quella di Fusine. Il motivo di questo cambio di riferimento toponomastico (l’aggiunta del nome Fusine) può essere spiegata con il progressivo costituirsi, che avveniva già da alcune generazioni, di un abitato stabile attorno alle fusine, edifici di per sé solo per lavoro e non d’abitazione. Troviamo, infatti, già al 1328 l’esistenza di persone abitanti stabilmente a Fusine, ma la svolta avvenne forse proprio negli anni a ridosso del 1394 (appena quattro prima della sentenza del 1398, tra l’altro dell’iniziale 17 gennaio di quell’anno), quando del forno «di San Nicolò» venne investito quel non meglio specificato «dominum Nicolaum supradictum», il quale agiva però «nomine et vice domine Anthonie eius uxor», ossia da fortunato erede di una fortuna non della propria famiglia ma di quella della moglie. È probabile che questi fosse persona abitante a Fusine, dove forse risiedevano già il di lei padre Bartolomeo e nonno Giacomo, originari di Ponte nelle Alpi.

È facile intuire come, a seguito di questo cambio di proprietà e, ipoteticamente, di residenza del titolare del forno fusorio «di San Nicolò», e magari ad una non corretta gestione dello stesso forno (ma potrebbe essersi trattato d’un disastro, ad esempio una delle periodiche alluvione), nel volgere di pochi anni o decenni possano essersi verificati l’interruzione dell’attività del forno e lo scioglimento della proprietà terriera sino allora comune alle quattro Regole gravitanti sulla cappella di San Nicolò, proprietà documentata in comune ancora nel 1398.

Da una parte, infatti, i diritti sulle pertinenze che il forno aveva sul Col Negre e sulle falde settentrionali del Ponta divenivano diritti collettivi (regolieri), e ciò a beneficio sia dei masi situati sul costone del Col Negre sia di tutti gli altri masi della Regola Grande dai Coi; dall’altra, i titolari, a vario titolo, del forno fusorio di San Nicolò residenti a Fusine, restavano privi di una qualsiasi proprietà terriera pascoliva sulle terre (pascoli e boschi) già del forno, conservando solo alcuni diritti d’uso collettivi in un’area terza, quella del Col Torondo, sopra Soramaè. Con passaggi successivi, per noi ora ancora oscuri nel loro evolversi preciso ma intuibili nella traiettoria del loro sviluppo, si arrivava alla definiva costituzione di nuovi rapporti di proprietà collettiva:

1) I masi tutti della Regola Grande dai Coi e, poi, la Regola per essi, diventavano proprietari esclusivi dei beni (senza meglio specificare) siti tra il Sas de Pelf e il Ponta;

2) I forni fusori di Mareson e Pecol ed il maso di Pianaz (pur della Regola Grande dai Coi), con i suoi membri Rizzardini dai Coi, diventavano proprietari esclusivi delle altre montagne gravitanti sulla cappella di San Nicolò, eccetto quelle riconosciute di proprietà di persone fuorivalle in base alla sentenza del 1398;

3) I regolieri di Fusine conservavano dei diritti d’uso sulle montagne di Mareson, Pecol e consorti del maso di Pianaz;

4) I masi de Pellegrin dai Coi «de Maraxono» e de Zanet del Col di San Nicolò conservavano i diritti di pascolo e legnatico sul Sot Pelf, di proprietà dei forni di Mareson e Pecol e dei consorti del maso di Pianaz;

5) I masi del Col Negre e della valle di Brusadaz (cioè tutti quelli della Regola eccetto quelli di Pianaz, de Pellegrin dai Coi e de Zanet di Col) conservavano diritti particolari d’uso sui beni collettivi lungo lo spartiacque da Sas de Pelf e Darè Dof fino al monte Ponta.

Potrebbe sembrare esagerato affermare che i regolieri di Fusine erano venuti ad trovarsi esclusi (o per debito contratto o per causa naturale o per altro motivo) da ogni proprietà collettiva, ma l’estimo settecentesco del Capitaniato di Zoldo (da me trascritto e pubblicato il 9 maggio 2008, poi nel 2013, cfr. blog del Baliato, pubblicazioni del Libero Maso) al n. 3894 ha questa registrazione: «Regola di Mareson, Giacomo dal Cason per la Regola di Pecol, Mattio de Vido per la Villa di Pianaz, et Consorti Rizzardini dai Coi possedono à nome della Regola à segar, e pascolar l’infrascritte Montagne, giusto le sue investiture. Monte Loco detto Palla Favera. Frà questi confini da una parte aqua del Maè, dall’altra parte le Roi col Rù Bianco, da un cao il pian de fontana, che si ritrova trà Selva Cadorina, dall’altro Cao Selva ancora fino alle Creppe di Fersora, pradi, e pascoli d’Alleghe, et altri Monti, cioè la Monte di Baindors, Monte de Callaut, Monte di Castellin, tutte trà suoi confini come nella sua Investitura in carta pecola da noi veduto, e tutte trà suoi confini come nella sua Investitura in carta pecola da noi veduto, e letto di prodduttione in tutte le dette Montagne di carra n. 16 fen. Cattivo, L. 12 : = : = ». Pianaz è chiamato giustamente villa, in quanto l’unico maso originario s’era diviso in quattro con una specie di quinto maso (formalmente non tale, ossia la proprietà dei Rizzardini nella villa dai Coi); altrettanto giustamente non si parla di Pianaz come Regola, mentre lo sono Mareson e Pecol. Le investiture cui si fa riferimento non sono più quelle vescovili iniziali, ma quelle della Serenissima, già note e pubblicate (rinvio a quello studio, pertanto, per gli approfonduimenti).

Non mi è del tutto chiaro, onestamente, come mai si parli di «possesso à segar, e pascolar», senza accenno al «boscar» ed esercitare ogni altro diritto, com’era specificato nella sentenza del 1398: avere gli «homines, et Regulares» in «praedicta pascu[l]a [et] ampla [=i pascoli in genere e gli spazi prativi ricavati nel bosco] cum eorum iuribus, et pertinentiis ratione utilis Dominii pleno iure spectare, et pertinere, et spectasse, et pertinisse praedictis hominibus, et Regularibus». L’unica spiegazione plausibile è un certo «non sentire il bisogno di star lì a specificare» che aveva attraversato in quel momento l’animo dello scrivano; cosa possibilissima e riscontrata anche in altri casi; cosa che, del resto, non mutava in nulla il pleno iure, che trovava pur sempre fondamento (o riconoscimento) nella investiture venete e non nell’estimo catastale.

Poiché il pleno iure, poi, è un dato acquisito già dal 1398, è indiscutibile che nel Settecento lo godevano pure i fuochi-famiglia della Regola Grande dai Coi, a riguardo dei loro beni, per quanto gran parte di tali beni per un lungo periodo fossero stati coperti da servitù d’uso di legnatico a vantaggio del forno di Scarfedara. E il pleno iure permane ancor oggi, legalmente riconosciuto.

Credo necessario specificare meglio quanto affermato, nella precedente lettera, a riguardo del confine antico tra Cadore e Bellunese. Con i comunicati dagli Schildhöfe di Coi e Col n. 174, n. 197 e n. 208 (rispettivamente 5, 15 e 18 giugno 2015) avevo avanzato l’ipotesi che all’epoca della confinazione tra Zuglio Carnico e Bellunese (di cui alle incisioni su roccia dette «del Civetta») i due accennati municipi romani in questo punto seguissero il tracciato dal rù de Scofa, che scorre tra i masi di Costa e il costone del Col Negre, e il rù de Scofa stagionale di prima della chiesa di San Nicolò, presso il fabbricato attuale delle elementari e della biblioteca civica, per poi proseguire risalendo il corso del Maè e terminare in Val delle Žiolère, dove c’è la prima delle incisioni, ovvero quella più a sud. Resto convinto della validità di questa interpretazione storica, anche se essa non può restare che a livello di ipotesi, non essendo suffragata da documenti, ma solo da un insieme di considerazioni e dati convergenti, lì esposti. Si era all’ora al primo secolo dell’epoca cristiana, mentre la chiesa di San Nicolò in alta val di Zoldo può essere data per certa (se pur accennata indirettamente) solo in base alla bolla papale di Lucio III del 1185. Tra le due situazioni cronologiche c’è l’enorme distacco d’un millennio e più, per cui sarebbe persino ridicolo pensare ad una continuità di confinazione giurisdizionale (di municipi ed enti a loro successi). Eppure, ancora nel XIV e XV secolo troviamo che i masi costituenti la Regola Grande dai Coi «di San Nicolò» avevano un utilizzo, dell’unica proprietà collettiva, che risentiva ancora dell’ipotizzata antica confinazione, ossia andava in senso est-ovest (come tutta quella del municipio di Zuglio Carnico) anziché in senso nord-sud, come a noi oggi sembrerebbe dovesse essere, solo perché lo troviamo per istinto meglio corrispondere a criteri geografici che crediamo oggettivi e immutabili, anticipandone arbitrariamente la loro applicazione nel tempo e nello spazio.

Nella precedente mail scrivevo, pensando a questo, che nel 1398 e nei decenni immediatamente successivi «mentre [i masi di] Costa e Brusadaz gravavano su [quelli di] Col, Coi e Pianaz, i masi di Iral, Zaccagnin e di Sabe [senza scordare quello di rù Sec] gravavano su Fusine e su Scarfedara (nome sempre un po’ insicuro negli stessi documenti), località [che sorge] addirittura sotto Fop e poco sotto Cercenà». Di certo, i primi masi non avevano, come tali (cioè a parte qualche eventuale loro singolo membro) rapporto lavorativi stabili con il forno; altrettanto certo è che la proprietà collettiva dei masi di Pianaz, Coi e Col era legata al Sot Pelf, quella dei masi di Brusadaz e Costa al Col Duro (con, ovviamente, Darè Dof) e quella dei masi del Col Negre al Col Negre stesso e alle falde del Ponta. È certo pure, per terzo, che qualche volta i masi del secondo e terzo gruppo si trovarono uniti in qualche rivendicazione terriera, visto che in parte avevano degli interessi comuni, mentre quelli del primo gruppo, non convergenti (a parte un pochino quello di Col) sulla valle del Rutorbol avevano interessi piuttosto separati.

Abbiamo così il formarsi un po’ alla volta, nell’ambito dell’unica Regola Grande dai Coi e accanto a quello che sarà ufficializzato come il patrimonio collettivo generale regoliero, di altri beni e diritti collettivi, così identificabili:

1) Beni collettivi sul Col Negre e su un tratto del monte Ponta, con diritti esclusivi di proprietà e di uso, possessi dai masi del Col Negre;

2) Beni collettivi sul Col Duro (e in una parte del Darè Dof), con diritti esclusivi di proprietà e di uso, possessi dai masi di Costa e Brusadaz;

3) Beni collettivi sul Sot Pelf, porzione della montagna di Calaut indicata nell’Estimo settecentesco del Capitaniato di Zoldo, con: 3A) diritti di proprietà e di uso, possessi dal maso di Pianaz (con i suoi membri Rizzardini abitanti a Coi) assieme alle Regole di Mareson e di Pecol; e con: 3B) diritti di pascolo e legnatico (anche su una parte del monte di Sot Pelf non rientrante tra i beni regolieri generali dai Coi), possessi dai masi de Pellegrin (dai Coi) e de Zanet (da Col), esclusi a pro di questi due ultimi masi altri diritti collettivi, di possesso o di uso;

Lo stesso fenomeno, del costituirsi di beni collettivi accanto a quelli generali di Regola; di beni collettivi, cioè, di quei soggetti un po’ de iure e un po’ de facto, che Arangio Ruiz e de Castello definiranno negli anni Trenta del secolo scorso «Regola di villaggio»; si riscontra sia per Fusine, come per Pianaz, Mareson e Pecol. Senza dilungarmi su questo punto, ricordo i beni del maso della Scuola della Madonna, a Pecol, rientranti e non rientranti tra quelli generali di tale Regola e del patrimonio comune tra le Regole e gli aventi diritto di cui al passo citato dell’Estimo settecentesco. Questo evolversi storico mi sembra piuttosto importante per capire come la struttura delle Regole venete sia riuscita solo in parte a codificare il sistema più antico dei domini collettivi, i quali per alcuni beni, non proprio piccoli, continuarono ad esistere insieme e al di là delle Regole stesse. Le quali in Val di Zoldo non sono, pertanto, la forma giuridica originaria della proprietà collettiva, ma un suo successivo tentativo di inquadramento, iniziato già con le norme dello Statuto del Comune di Belluno; inquadramento che, in vero, era perdente in partenza, in quanto non era possibile ridurre al «letto di Procuste» statutario situazioni tanto diverse e intrecci di diritti di proprietà e d’utile dominio; né era possibile riconoscere a ogni situazione di diritto collettivo il grado e il ruolo delle Regole, quali lo Statuto bellunese stesso (e poi la Serenissima) intendeva che fossero, deformando ulteriormente la portata dei termini originari, pur materialmente simili.

Anche per oggi mi fermo qui, sperando di riuscire ad esporre in una terza mail le promesse considerazioni sul toponimo «Coi di Mareson».

don Floriano Pellegrini

Nella foto: In torrente Maè in centro a Forno, con i suoi bei muraglioni. Come sarà stato un tempo, quando vennero i primi abitanti dei masi e lavoratori del ferro?

Balcone fiorito di un albergo a Mareson; sullo sfondo si intravede il monte Civetta.

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