LAMENDOLA, Le radici psicologiche dell’apostasia in massa del clero attuale, alto, altissimo e basso

Articolo, del 18 settembre c.a., del prof. Francesco Lamendola

Da: http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/teologia-per-un-nuovo-umanesimo/6778-psicologia-del-clero

Avete mai bazzicato per i mercatini dell’antiquariato? Anche se si chiamano così, molti espositori offrono semplicemente robe vecchie: non cose d’antiquariato, parlando in senso proprio, ma semplicemente cose raccattate nelle soffitte e nelle cantine. Il che non significa che non vi si trovino oggetti estremamente interessanti e, in qualche caso, di valore: non tanto in senso economico, quello non c’interessa, ma di valore intrinseco, ad esempio libri molto rari, non più ristampati da un secolo, o Messali dell’epoca preconciliare.

Ecco appunto: materiale di tipo religioso. A volte si trovano intere biblioteche teologiche: volumi introvabili sui circuiti normali, curati da ottimi specialisti, sovente in latino, con il timbro o la stampigliatura del vecchio proprietario, qualche sacerdote che è stato parroco per quaranta, cinquant’anni nel paese o nel quartiere tal dei tali, e che da tempo era finito in una casa di riposo per preti anziani. Quei libri, i migliori esistenti all’epoca in materia, dovevano essere il vanto della sua biblioteca: perché i parroci di una volta erano persone assai colte, che conoscevano molto bene ogni aspetto della teologia dogmatica e di quella morale, che sapevamo conversare disinvoltamente con un ospite straniero nella lingua internazionale della Chiesa, che è – o che era – il latino; di solito conoscevano anche il greco e qualche volta l’ebraico. La loro cultura si palesava nelle prediche che facevano alla santa Messa; a volte, per ascoltarli, le funzioni erano affollate sino all’inverosimile. E così per i frati predicatori, specialmente domenicani, soprattutto nei quaresimali.

Ora quei magnifici libri, malridotti e impolverati, qualche volta perfino con gli angoli delle pagine mangiucchiati dai topi, o impregnati di umidità per essere rimasti chissà quanti anni in fondo a una cantina, giacciono sui banchetti di qualcuno che ve li vende a un euro, due euro l’uno, senza distinzione alcuna fra un libretto devozionale popolare e un volume, ben rilegato, di mistica o di teologia fondamentale. È successo che il vecchio prete è venuto a mancare, a ottanta, a novant’anni, e la sua vecchia canonica è stata definitivamente sgombrata dal suo giovane successore. Gli armadi e gli scaffali della libreria sono stati svuotati; gli scatoloni sono stati regalati a quelli del mercatino, che son venuti a prenderli e portarseli via. Il nuovo parroco pensa di aver fatto un vero affare, e così il superiore del convento del frate passato a miglior vita: tanto spazio guadagnato, tanto vecchiume eliminato, per giunta a costo zero; nemmeno la fatica di portare tutti quei volumi alla discarica. E così, tesori di sapienza e di pensiero se ne vanno ai mercatini dell’antiquariato, venduti per meno di un pezzo di pane, quando non finiscono direttamente al macero. Eppure, ripetiamo, si tratta, quasi sempre, di libri estremamente interessanti, nei quali un cattolico può trovare degli autentici tesori di logica, di rigore dottrinale, di spiritualità, di ascesi: sono delle vere oasi zampillanti, ove lo stanco e assetato pellegrino potrebbe spegnere la sua sete in quel deserto che è diventato il mondo moderno.

Si pone pertanto la domanda: come mai tanta insensibilità, da parte dei superiori, o dei successori, che si sbarazzano in maniera così vergognosa, così indecorosa, così squallida, di un simile patrimonio intellettuale e spirituale? Perché non spedire quegli scatoloni alla più vicina biblioteca diocesana, al più vicino seminario? Perché non mettere quei libri a disposizione di quanti, preti e laici, sono interessati ad approfondire le radici della fede cattolica, a scendere in profondità nella filosofia cristiana, a comprendere sempre meglio le ragioni della pastorale e della liturgia?

Ecco; qui arriviamo al nodo cruciale della questione. Magari quei libri fossero stati liquidati in fretta e furia, in maniera così indecorosa, per semplice ignoranza, per semplice stupidità: sarebbe ancora l’eventualità meno grave. Purtroppo, quasi sempre si tratta di qualcos’altro. Chi li ha venduti ai robivecchi, anzi, chi li ha regalati, purché sbarazzassero la canonica, sapeva bene quale fosse il loro valore, non economico, ma intellettuale e spirituale. Quell’abate, quel vescovo, quel nuovo parroco che hanno chiamato i robivecchi e hanno detto loro: portate via tutto, sono persone intelligenti e perfettamente consapevoli di quel che stavano facendo. Sapevano che quei libri rappresentavano un patrimonio culturale e morale di grande valore, e tuttavia hanno ritenuto di sbarazzarsene a quel modo. Potevano regalarli a una biblioteca pubblica, o anche a qualche privato, ce ne sono tanti che avrebbero gradito un simile regalo; ma loro non volevano una cosa del genere.

Per loro, quel patrimonio è qualcosa che deve essere cancellato, dimenticato, rimosso.Per loro, tutto ciò che appartiene alla Chiesa di prima del 1965 non ha valore; la vecchia teologia, la vecchia pastorale, la vecchia liturgia, tutto questo è non solo “archeologia”, dal loro punto di vista, ma è addirittura qualcosa di pericoloso. Qualcosa che possedeva una tale unità, una tale ricchezza di pensiero e di sentimento, una tale bellezza, che, se cadesse nelle mani “sbagliate”, potrebbe far nascere cattivi pensieri. Potrebbe far riflettere che, forse, nonostante tutta la retorica sul Concilio come nuova Pentecoste, la Chiesa si è immensamente impoverita, non solo, ma che si è messa, sotto molti punti di vista, su una strada decisamente sbagliata. Una strada contraria alla Tradizione, e perciò contraria al Magistero. Il Magistero è il frutto della Tradizione e della Scrittura; in altre parole, è la fedele custodia del Deposito della fede. Il Deposito della fede non si tocca: è quello, non può essere cambiato neppure d’uno iota.

Ma questo è appunto quel che non va già ai novatori, ai riformisti, ai progressisti. Per loro, l’idea di una fede che resta immobile è un controsenso, un anacronismo, una sfida alla loro stessa sensibilità. Essendo progressisti, non arrivano a concepire niente che sia buono se non si adegua perfettamente alle leggi del progresso. La legge numero uno è che bisogna andare avanti, sempre avanti, e tagliarsi i ponti dietro le spalle: niente nostalgie, niente rimpianti, niente passatismi: chi si ferma è perduto.

Per questa ragione, che è di ordine psicologico, oltre che ideologico, essi detestano la Tradizione: perché ogni tradizione, ai loro occhi, sia essa di origine umana o di origine soprannaturale (ma a quest’ultima, probabilmente, non credono) è un ostacolo ai loro progetti, alla loro ferma e costante volontà di rinnovamento, Bisogna rinnovare, aggiornare, svecchiare; l’atto materiale di far portare via i vecchi libri del parroco andato in casa di riposo è l’espressione materiale di un’ansia interiore di spazzare via tutto ciò che apparteneva alla “vecchia” Chiesa, per fare posto alla nuova. Aria, aria nuova! Essi odiano ogni tradizione perché, al loro delicato olfatto, sa di muffa, sa di vecchio: e loro vogliono esser giovani.

Se dovessimo sintetizzare in una formula la smania di modernismo che ha afferrato gran parte del clero a partire dal Vaticano II, diremmo che è la sindrome del giovanilismo. Come quelle sessantenni che vogliono rivaleggiare con le ventenni, e si vestono, si truccano, si muovono come se avessero quarant’anni di meno, così molti preti del Concilio e post-concilio, indipendentemente dalla loro età anagrafica, si son fatti prendere dalla smania di apparire giovani: e, per far questo, dovevano tagliarsi i ponti dietro le spalle. Dovevano tagliare i ponti con tutto ciò che la Chiesa aveva ritenuto giusto, buono e bello per secoli e secoli. Bisognava far vedere che un prete del XX secolo non era da meno, quanto a spirito moderno, di chiunque altro; anzi, se possibile bisognava far vedere che sapeva essere anche più moderno degli altri. Di qui, una accelerazione sempre maggiore, una frenesia di stupire, di meravigliare, dimostrarsi più realisti del re, più moderni dei modernisti laici.

Bisogna essere assolutamente moderni, aveva sentenziato il poeta moderno per eccellenza, Arthur Rimbaud. Ed ecco tutti questi preti postconciliari darsi un gran daffare per apparire moderni, per sentirsi moderni, per estirpare e strappare via da sé ogni traccia di vecchiume, ogni ruga del passato. Del resto, tutta la corrente principale della società profana, negli ani ’60 del Novecento, correva in quella direzione. La moda incalzava, coi suoi prodotti sempre nuovi, sull’onda del consumismo; gli artisti, gli intellettuali, gli scrittori, i registi cinematografici facevano a gara nel dire la parola nuova, nell’assumere atteggiamenti nuovi, di rottura; i giovani non volevano più saperne del passato, dei genitori, delle famiglie (ma era vero, poi? o era quella l’idea che i mass media volevano imprimere nella mente dei giovani stessi?); e gli scienziati erano sempre più protesi, sempre più sbilanciati in avanti, verso nuove mete spettacolari. I viaggi nello spazio, l’imminente conquista della Luna: che bello; visto che progressi sono resi possibili dalla corsa della scienza? Perciò per progredire bisogna correre: e per correre bisogna sbarazzarsi di tutto il fardello della tradizione. Come la donna di sessant’anni che s’illude di ringiovanire buttando via i vestiti vecchi e acquistando vestiti nuovi, da ragazza, e truccandosi come le ragazzine, e assumendo i loro stessi atteggiamenti, facendo le cose che fanno loro – o, almeno, sforzandosi di farle, artrosi permettendo.

È stata, in tutto e per tutto, una crisi di identità. E, come tutte le crisi di identità, è stata, all’origine, una crisi della fede. Si arriva a dubitare di se stessi quando si comincia a dubitare di Dio, del suo amore, della sua provvidenza.

È per questo che Karl Rahner ha avuto tanto successo nel propagare la sua svolta antropologica; se il momento non fosse stato adatto, la sua sarebbe rimasta una voce isolata. Invece il suo pensiero teologico, che è eretico, si è insinuato in tutti gli ambiti della Chiesa e ha contaminato tutto il clero.

Così, di eresia in eresia, di forzatura in forzatura, siamo arrivati al punto che un Enzo Bianchi, il quale non è né prete, né teologo, si impancava, su invito del signore argentino, a insegnare ai preti cos’è la vera dottrina.

E siamo arrivati al punto che un gesuita eretico, come James Martin, viene invitato, d’inteso col signore argentino, all’Incontro delle Famiglie a Dublino, per propagandare le famiglie arcobaleno e le unioni gay.

Tutto questo è stato possibile perché, negli anni ’60, è letteralmente esplosa una insofferenza nei confronti della dottrina cattolica, che covava da tempo nelle file stesse del clero.

Come sempre, i capofila dell’eresia incipiente sono stati uomini di Chiesa, non laici.

A dire che il diavolo non esiste è stato il gesuita Sosa Abascal; a dire che l’inferno non esiste è stato il signore argentino; a dire che Lutero è stato un dono dello Spirito Santo è stato monsignor Galantino; e a dire che dobbiamo prendere tutti a modello la vita esemplare di Marco Pannella è stato un altro monsignore, Paglia.

A rifiutarsi di benedire i giovani di Palermo, il 15 settembre scorso, e di fare il segno della croce, è stato sempre il signore argentino.

E a dire di sì all’utilizzo dei paramenti sacri dei pontefici per il Met Gal di New York, con relativa profanazione, è stato monsignor Ravasi.

Dunque, una crisi della fede; alla quale il clero all’epoca del Concilio, e poi sempre più negli anni successivi, ha reagito cercando di rinnovarsi con un bagno di giovinezza. Come se rinnovare la pastorale o la liturgia servisse a qualcosa, quando la fede se ne sta andando.

Questo è stato il grande equivoco del Concilio: che ha voluto essere, per sua stessa ammissione, un concilio pastorale, mentre la fede era vacillante e sarebbe servito, semmai, un concilio dogmatico, per ribadire la linea dei grandi papi del Novecento, da Pio X in poi: per condannare gli errori del mondo moderno e per mostrare la smagliante bellezza e la radicale alternativa evangelica.

Quando la crisi vacilla, è il tempo di gettarsi in ginocchio e d’implorare l’aiuto di Dio, non è il tempo di sbandierare dialogo e misericordia con tutti i non credenti.

Non si può dialogare con gli altri da una posizione di debolezza; non si ha il diritto di essere permissivi e possibilisti su ciò che riguarda i fondamenti della fede.

A questo atteggiamento di infedeltà e insincerità se ne è aggiunto poi un altro, ancora più esecrando: la cattiva coscienza di chi non ha il coraggio di guardare in faccia le cose, ma vuol dare a intenderla agli altri e perfino a se stesso.

Questi preti, usciti dai seminari senza più fede, o con la fede mortalmente indebolita, hanno cercato il rimedio alla loro frustrazione riversandola sull’azione sociale: si sono investiti del compito di raddrizzare il mondo, tradendo così il Vangelo. Cristo non ha mandato gli Apostoli nel mondo per raddrizzarlo, ma per convertirlo: e non lo si converte facendo, più o meno, quel che può fare qualsiasi altra associazione di uomini benintenzionati, ma senza la grazia di Cristo; bensì con l’esempio convincente della propria coerenza di vita in Cristo.

E qui casca l’asino, perché preti, vescovi e cardinali senza fede non hanno avuto il coraggio e l’onestà di guardare le cose in faccia, e dire agli altri ed a se stessi che non credevano più nel cristianesimo, non credevano più nel modo in cui la Chiesa lo ha trasmesso per millenovecento anni. Se fossero stati coerenti e disinteressati, avrebbero chiesto la riduzione allo stato laicale e poi, se lo volevano, avrebbero potuto fondare una nuova chiesa e una nuova religione. Ma no: era troppo comodo sfruttare le posizioni acquisite; nessuno era disposto a rinunciarvi. Cardinali e vescovi volevano, e vogliono, tenersi ben strette le loro cattedre: non importa se hanno perso la fede, e se la perdita della fede li ha precipitatati nei vizi e nei peccati più abominevoli, come Mc Carrick e i suoi amici. E anche molti sacerdoti, giunti a trent’anni, avranno pensato: E adesso, come mi guadagno la vita? Altri lavori non ne so fare; ho studiato da prete, continuerò a fare il prete. Però voglio cambiare la Chiesa, voglio cambiare tutto, perché questa dottrina non mi va. Questa dottrina è troppo severa, è troppo esigente; voglio annunciare un vangelo più tollerante e più misericordioso. E così han fatto, e seguitano a fare, strappando gli applausi del mondo e specialmente dei nemici di sempre della Chiesa. Mai che li sfiori il dubbio di essere solo i piccoli, vanitosi burattini nelle mani del diavolo…

* In PDF allegato: Radici psicologiche dell’apostasia di massa del clero

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